Il Mondo Andato Avanti di Filippo Albertin Tutto è passato, passati sono pure i Rosari Fiorelli, passata, trascorsa, dimenticata anche la loro indimenticabile presenza sulle macerie di Tangentopoli, sui palchi della Prima Repubblica, dei villaggi turistici, delle lottizzazioni. Passata è addirittura la contaminazione che denunciavamo in tempi non sospetti. Passato, trascorso, dimenticato quello che già cercavamo di far dimenticare in tempi che oggi gettiamo in oceani di piagnistei. Non riusciamo neppure a ricordare un luogo dal quale ricordare ciò che giace più che cancellato. Tutti i libri sono stati letti. Neppure una libreria remainder perviene all'orizzonte delle nostre città.
Mese: Marzo 2024
La Vetta e il suo Doppio
Per un’analisi della vera trama, necessariamente ancora da immaginare, che si sarebbe dovuta sviluppare attorno alla storia di Twin Peaks
L’articolo originale è anche disponibile qui.
La tesi che voglio suffragare in questa mia disamina è legata a un fatto oggettivo in quanto platealmente ammesso dallo stesso David Lynch. La svolta prepotentemente soprannaturale avvenuta attorno alla metà della seconda stagione di questa acclamata serie televisiva altro non fu che una ripicca del regista verso le decisioni della produzione, che imponeva di rivelare immediatamente il colpevole. Questa decisione indusse il regista a inventarsi di sana pianta la figura di BOB, entità soprannaturale impersonata peraltro non già da un attore professionista, ma da un banalissimo inserviente a disposizione, a riprova della natura più che rocambolesca della faccenda, che avrebbe in qualche modo giustificato l’azione delittuosa di un padre la cui libidinosa e ignobile violenza era solo dettata da una possessione.
Ma a volte le soluzioni appaiono ben peggiori dei problemi che dovrebbero risolvere, ed esattamente questo è il caso di Twin Peaks, che dalla svolta in poi diventa una sorta di claudicante giocattolo nelle mani di un Lynch sempre più in difficoltà nel reggere l’intero impianto della trama. Con aporie che non si contano: personaggi che animano storielle parallele del tutto autoreferenziali, oppure che appaiono e scompaiono senza nulla portare allo svolgimento della storia; isterie collettive che alludono a forze misteriose la cui logica di funzionamento, per quanto soprannaturale, rimane del tutto oscura; e infine un cambiamento radicale di stile, che dal sublime contrasto tra natura incontaminata e kitsch da soap opera passa a una morbosità grottesca a base di tende rosse, geometrie vagamente massoniche, con nani e giganti sparsi qua e là.
L’idea originaria era evidentemente del tutto diversa, e numerosi sono gli indizi di tale radicale diversità.
Cosa sono le “Vette Gemelle” che danno appunto il nome alla cittadina? Sono due montagne, che chiaramente rappresentano la metafora del dualismo: da un lato la montagna come simbolo di solidità, robustezza, natura incontaminata, riparo, protezione; dall’altro lato la montagna che incombe, che oscura, che occulta e nasconde alla vista, ovvero la montagna dei boschi, dei rituali, della violenza atavica.
Il progetto originario della serie si imperniava appunto su questo: rappresentare, attraverso l’elemento catalizzatore di una bellissima ragazza vittima di un brutale killer, la doppia faccia di una cittadina, ovvero il suo versante oscuro e inconfessabile progressivamente messo in luce dall’indagine investigativa di un personaggio esterno, l’agente speciale Dale Cooper. Laura Palmer doveva quindi da subito essere, e in effetti per molte puntate lo è stata incondizionatamente, lo scandaglio non presente in scena, l’entità aleggiante, il mistero di una doppia vita che la parte luminosa e amichevole della città non vuole ammettere. Ecco dunque la chiarissima dicotomia, che guarda caso appare con eloquenza sconcertante anche solo nei celeberrimi titoli di testa: un uccellino colto nella natura incontaminata di un bosco, a illustrare la pace atavica dello stato pimordiale, e subito dopo le immagini della segheria della città, segno chiarissimo dello sfruttamento, del lucro, del potere, e poi ancora il contrasto tra l’albergo e l’immensa cascata… Siamo di fronte a una tesi molto lineare: dietro questa facciata idilliaca si celano segreti, e questi segreti sono riassunti nell’ambigua esistenza di una giovane donna chiamata Laura Palmer.
Se è vero che il tema del doppio è stato successivamente ripreso e trattato da Lynch specialmente nella fantomatica terza serie del 2017, è anche vero che tale tema risultava ormai definitivamente contaminato dalla svolta soprannaturale risalente all’avvento del catastrofico demone BOB, e dei voli pindarici ad esso conseguenti: l’inutile e fastidiosa loggia nera, i gufi, la frase “fuoco cammina con me” (che chiaramente alludeva alla passionalità e al desiderio che la Palmer suscitava in giovani e adulti del luogo, e non certo a chissà che metafora occulta), i simboli ritrovati dentro una grotta e mai spiegati, l’operazione Rosa Blu, i nani e i giganti, e via discorrendo lungo le inenarrabili invenzioni autoreferenziali che ho avuto modo di snocciolare in vari articoli. Un vero peccato, perché la tematica del doppio era già in nuce nella fibra stessa della narrazione dalle sue prime battute.
Gli ingredienti c’erano tutti: il cattivo gusto dell’albergo e di certe signore altolocate, in contrasto con la gentilezza e schiettezza del luogo; gli affari loschi degli adulti, a base di droga e prostituzione, in opposizione con l’amicizia sincera e l’amore incondizionato delle giovani generazioni; la signorilità di Dale Cooper e l’amicizia con lo sceriffo locale da un lato, la brutalità dei trafficanti e la meschinità degli intrighi imprenditoriali dall’altro. In mezzo, come spartiacque, Laura Palmer e i suoi insondabili segreti.
Il vero problema di questa narrazione è stato evidentemente la sua natura non propriamente seriale, ossia, parlando in termini di contraddizione tra forma e contenuto, l’impossibilità di continuare una trama che fosse solo basata sulle classiche dinamiche di una soap opera, per definizione basata su personaggi, e non su matasse da dipanare. Un mistero, prima o poi, deve risolversi, e dunque l’invito della ABC ad accelerare il processo investigativo non era poi così campato in aria. L’idea di fondere Dallas o Dynasty (non per niente, quest’ultima, proprio a marchio ABC) con una precisa indagine, per quanto affascinante e legata all’enigmatica figura di un’adolescente femme fatale in grado di trascinare tutti nella perdizione della follia, probabilmente avrebbe dovuto basarsi su meccanismi diversi da quelli adottati. Innanzitutto, una serie del genere mai e poi mai si sarebbe potuta concepire come narrazione allungabile ad libitum sulla base di un capriccio, poco importa se del regista o della produzione.
Dunque, la grande domanda resta una sola: Sarebbe possibile ricostruire la narrazione originaria di Twin Peaks, immaginando da cima a fondo lo sviluppo di una sceneggiatura completa ed esaustiva dell’intera vicenda, con una suddivisione in capitoli o episodi che tengano il meglio di quanto fatto e sviluppino gli eventi in altre, diverse direzioni?
Questo interrogativo sorge anche sulla base di alcuni oggettivi punti di forza che, nonostante tutto, hanno fatto di questo fenomeno televisivo un prodotto piuttosto importante e riconosciuto come innovativo. In primis, la capacità di coinvolgere un pubblico tendenzialmente giovane, attraverso elementi che, pur inserendosi in una narrazione spesso destinata a fasce anagrafiche più adulte, premeva molto l’acceleratore su inquietudini, passioni, confusioni e turbamenti tipici dell’adolescenza e degli scenari da college statunitense. Oltre a questo, impossibile tacere l’evidente efficacia di determinati colpi di scena, per quanto spinti oltre il limite del grottesco: si pensi al bizzarro psichiatra con la sua mania per le Hawaii, che cela all’interno di una noce di cocco il noto pendaglio spezzato di Laura Palmer (di certo un MacGuffin hitchcockiano mancato), oppure l’improvvisa entrata in scena di un corpulento uomo d’affari giapponese, che si rivela essere la scomparsa Catherine Martell. Si tratta evidentemente di elementi molto difficili da gestire, che appunto, nel corso della serie sono stati letteralmente gettati alle ortiche con soluzioni sempre più vacue, la cui vena mistica e soprannaturale non basta certamente a neutralizzare l’incontenibile effetto comico: una su tutte, l’eliminazione del personaggio dell’asiatica Josie Packard, che letteralmente scompare assorbita metafisicamente da un comodino!
Insomma, sarebbe interessante raccogliere antologicamente tutto ciò che nella serie classica, intesa chiaramente come setting precedente alla distruttiva introduzione di BOB e di tutto ciò che ne consegue, ha effettivamente funzionato, per capire cosa farne di effettivamente buono nell’economia di una narrazione completa e formalmente ineccepibile.
L’idea della trama mystery a mio avviso è da tenere, così come è da tenere quella certa nota esoterica portata in scena dai metodi deduttivi “allargati” dell’affascinante agente Dale Cooper. Bella ed efficace anche la presenza di industriali e uomini d’affari corrotti, che si alternano tra i denari generati dalla struttura alberghiera del posto (sfruttata pochissimo, se consideriamo quanto essa potesse essere subliminalmente sovrapposta alle atmosfere del ben più noto Overlook Hotel), e dall’azienda che produce legname (pure quella, completamente dimenticata, nonostante le tantissime potenziali connessioni che avrebbe potuto generare). Molto interessanti anche i rapporti tra ragazzi, ora ribelli, ora romantici, ora implicati in sporche faccende di droga per evidente noia esistenziale (perfetto in questo senso il personaggio di Bobby, il cui padre militare era chiaramente stato impostato, nella versione originaria, come emblema del conservatorismo statunitense benpensante, e mai e poi mai si sarebbe tramutato in quella sorta di viaggiatore metafisico poi imposto a suon di contraddizioni dagli assurdi voli pindarici di Lynch). Che dire poi di Audrey Horne? Dalle prime puntate una perfetta figlia di papà, sensuale, capricciosa, gratuitamente crudele, che solo per un’inspiegabile e inattendibile volontà registica viene improvvisamente e senza alcun motivo trasformata in una ragazzina dal cuore d’oro, pentita non si sa per cosa. Al contrario, il suo personaggio sarebbe stato perfetto, assieme a vari altri, per depistare le indagini, visto che è evidente che il colpevole si sarebbe dovuto trovare attraverso un colpo di scena del tutto imprevedibile. Forse tutta la cittadina ha avuto parte al delitto, oppure è stato proprio il più insospettabile. Cooper stesso? Se sì, in che modo? Capite bene che un “classico alla Agatha Christie” non sarebbe stato comunque male come idea di base, sulla quale innestare le intuizioni grottesche e surreali di Lynch. Anzi. Sarebbe stata la via migliore.
Vicenza, 27 marzo 2024
Twin Peaks: l’Ultimo Tassello
Eccomi dunque giunto a colmare l’ultima, ultimissima lacuna che a detta di tutti dovevo colmare per il completamento di quello che ormai posso chiamare l’affare Twin Peaks. Vi ho già abbondantemente parlato delle prime due “storiche” serie, per poi saltare direttamente alla terza, ovvero quella dei venticinque anni dopo. Evidente che mi mancava il fantomatico film del 1992, che a detta dei tutti di cui sopra mi avrebbe fornito le chiavi interpretative per chiudere il cerchio e comprendere tutto.
Ebbene, il film Twin Peaks: Fuoco Cammina con Me non ha fatto altro che confermare in pieno il giudizio generale che ho già dato. Un giudizio sostanzialmente negativo, che torna a interpretare l’intera operazione come una buona intuizione iniziale, trasformata dopo poco — forti del grande successo di pubblico — in una sorta di giocattolo registico nelle mani di un Lynch troppo seriale per essere astratto, e troppo astratto per essere seriale.
La trama è quella di un prequel fatto solo per tentare di spiegare cose che non solo non si spiegavano nella (da poco conclusa) serie storica, ma non erano neppure state prese in considerazione, essendo la storia complessiva e risultante una claudicante improvvisazione su temi di un esoterismo più ridicolo che inquietante.
Giunti a metà film veniamo a sapere:
- che un altro fatto delittuoso è stato precedentemente consumato;
- che alcuni agenti FBI sono scomparsi nel nulla;
- che un agente impersonato da David Bowie è invece dal nulla ricomparso (per fare quella che, a questo punto letteralmente, è proprio una comparsata e niente più);
- che il padre di Laura Palmer è uno che cambia personalità non si sa bene per cosa (ovvero, si sa, ma il dettaglio non fa né caldo né freddo);
- che nel retroscena ci sono delle storie di droga (appiccicate con lo sputo sulla pellicola);
- che Laura Palmer si droga, si concede carnalmente e assorbe su di sè — stile Jack Torrance — tutte le forze esoteriche della zona, impazzendo ogni tanto e poi tornando perfettamente normale senza alcun motivo;
- che ogni tanto saltano fuori un nano, un’anziana signora, un bambino elegantemente vestito, una maschera, e la lista potrebbe continuare.
Il tutto viene consumato all’insegna di dialoghi brutti, artificiosi e stereotipati, messì lì tra una scena inefficacemente misteriosa e l’altra chiaramente per tentare didascalie di una logica pregressa che il regista è il primo a ignorare completamente. Ma non solo: le scenette “boschive” notturne dove la Palmer, assieme al giovinastro di turno (Bobby in testa), mette in scena tutta sé stessa nell’esplodere istericamente su questo o quel tema rasentano la recitazione da cult horror di serie Z anni Ottanta.

Sembra veramente che la produzione abbia prescritto a Lynch un film “tanto per portare al botteghino i fan di Laura Palmer dei primi episodi poi gettati alle ortiche”, col solo intento di rivelare un mistero fatto di pezzi che non collimano, o che delineano un background incoerente che nessun misticismo potrà mai rendere efficace.
L’intera operazione — parlo ovviamente di quella storicizzata — arriva, con questo film, a deteriorarsi in un faticoso collage di spezzoni che sulla carta dovrebbero funzionare come zuccherini per il pubblico, ma che in realtà si guardano senza alcun interesse: Laura Palmer fa la zoccola e dice una parolaccia, Laura Palmer custodisce segreti e fa una faccetta strana, Laura Palmer musa di non so che cosa, Laura Palmer intermediario dei mondi e viaggiatrice del tempo non si sa bene come, e via discorrendo lungo una sequenza dove l’antecedente non produce nulla per rendere appetibile il conseguente. Effetto finale: il film amatoriale di un liceale che non sa bene che rappresentare, e filma le compagne di classe più carine.
Insomma, se la seconda stagione, una volta presa la piega del “tutta colpa di BOB”, aveva purtroppo già fatto dimenticare gran parte della verve grottesca e torbida che si respirava nella prima, con questo lungometraggio l’oblio verso qualsivoglia buona idea potesse scaturire dalle “Vette Gemelle” appare totale e definitivo.
Più precisamente, in questo film gli spezzoni più lynchiani si alternano, sempre inutili e vacui, a sequenze che danno l’impressione di raccordi chilometrici per giustificare la tale battuta, questo e quel passaggio, oppure anche solo per tentare di distrarre lo spettatore, fino a che — in quella specie di orgia che viene organizzata nel bar malfamato — solo le tette al vento della Palmer sembrano costituire l’unica motivazione plausibile per salvare qualcosa del lungometraggio, con tutta la tristezza che ne consegue.
La domanda, scena dopo scena, sgorga spontanea: ma veramente stiamo parlando dello stesso regista di Cuore Selvaggio e Velluto Blu?
Avete presente il vecchio adagio della buona narrazione? Mostrare, non dire. Ecco, in questo film l’epopea del “dire” si squaderna in tutta la sua prepotente inefficacia. Tutto è detto, tutto è didascalico, nulla viene mostrato, per il semplice fatto che non c’è nulla da mostrare per rendere credibile ciò che solo la parola, imprecisa e vuota, può spiattellare nella sua funzione di pura supplenza. I concetti chiari vengono ripetuti più e più volte, creando nello spettatore un senso di profondo fastidio: della serie ok, non sono imbecille, vai avanti… Quelli oscuri, invece, all’opposto vengono appena abbozzati, tanto che alla fine lo spettatore stesso comincia ad annoiarsi.
L’uso del commento sonoro, poi, è pessimo. A parte i bei temi conduttori di Badalamenti, certamente efficaci nei primissimi episodi, qui comunque decisamente meno sensati, l’idea di caratterizzare le scene inquietanti con specifici sottofondi astratti e cavernosi, mandati in loop senza alcun criterio, risulta essere, come dire, pura teoria, in quanto l’intento appunto forzosamente didascalico ne affiora decuplicato nella sua dichiarata volontà di stupire chi proprio non ha alcuna intenzione di stupirsi.
Le sequenze procedono circa così: la scena parte tranquillamente, poi accade qualcosa che introduce urla, frasi sconnesse, follia, visualizzazioni di luoghi “simbolici” che in realtà non vengono a dire un bel nulla, citazioni, che parimenti ci lasciano del tutto indifferenti, e infine tutto viene ricondotto alla normalità per effetto di frasi fatte, commenti idioti e banalità di ogni genere. Fine della scena, passiamo ad altro, e via così fino alla fine del film, non senza momenti di comicità involontaria, come detto.
Riassumendo: Se appunto escludiamo le idee e gli oggettivi risultati delle prime puntate, nel suo complesso ilTwin Peaks del periodo 1990-92 finisce per diventare il brodo allungato a dismisura attorno a un setting presto spiegato: In una certa cittadina, alcune giovanissime ragazze si prestano a giochi sessuali orditi da maturi mandanti altolocati, conditi da traffici di droga e prostituzione, e con sconfinamento in incesti e altre nefandezze. A partire da una certa puntata, è di rigore attribuire questa libidine distruttiva a forze soprannaturali, la cui descrizione — sempre più sfuggente ed ellittica — è affidata unicamente all’arbitrio di David Lynch, sulla base di quello che ha sotto mano: oggetti, materiali girati a caso, attori non professionisti, improvvisazioni del momento.
Sul serio. Non sto scherzando. Twin Peaks alla fine è questo e solo questo. Un episodio pilota di successo — con qualche idea veramente interessante (l’impianto di soap opera affiancato a una trama di investigazione, con personaggi grotteschi) — tramutato passo dopo passo in una sorta di isteria collettiva a puntate, dove qualsiasi unità formale e contenutistica viene a disintegrarsi pezzo per pezzo dopo l’avvento di BOB (l’entità demoniaca, o forse una delle entità demoniache implicate, non saprei dire con certezza) e di tutti i voli pindarici per darne una giustificazione. Punto, fine, stop. La stessa presenza fugace di David Bowie appare come ultima spiaggia per raccattare un consenso aggiuntivo, da affiancare al passaparola sulle tette della Palmer rivelate al mondo.
Il prequel in oggetto carica sul suo groppone tutto il peggio, facendo dimenticare il meglio, ahimè lasciato alle spalle un anno e passa prima. Lynch, amante delle sardine e del tiramisù, del risotto ai porcini e del frullato di banana, ha voluto confezionare una ricetta che includesse tutti questi ingredienti. Poi si è reso conto che faceva schifo: ha aggiunto zucchero, ma diventava troppo dolce. Ha aggiunto sale, ma virava sul salato. Poi si è reso conto che non funzionava. L’ha messa nel mixer per ottenere una salsa, e ha continuato a usarla per condire la scena successiva, ancora e ancora, fino a estreme conseguenze.
Poesie Musicassette e Gemellaggi

Solo per Me — Una poesia di questa mattina. Ho ripreso a scrivere poesie seguendo una sorta di implicito consiglio di Ray Bradbury. Il consiglio lo trovate nel libro Zen in the Art of Writing. Lo trovate, cioè, se lo cercate. Non è un libro particolarmente didascalico, anzi. Ma direi che è proprio questo il suo valore…
Austin Kleon musicassette — Peraltro, trovo interessante che Sherlock Holmes sia proprio in questa sua playlist. Mi piace l’idea. Da bambino ne facevo peraltro parecchie di musicassette personalizzate. Era un lavoro piuttosto istruttivo sul piano della creatività. Il digitale spinto ha rettificato di molto la nostra capacità manuale di fondere le cose per creare novità.
Burle e somiglianze musicali — Quella delle “somiglianze musicali”, per ogni musicista, è una sorta di ossessione. Il pop è pieno zeppo di somiglianze, ora volute, ora non volute, oppure anche subliminali: canzoni che scivolano in altre o sembrano essere fatte apposta per un mashup, ritornelli presi di peso, ispirazioni da schemi antichi o antichissimi, e via discorrendo. Tempo fa ho inserito questa cosa pure in un corso di songwriting tenuto a Vicenza, che ha goduto peraltro di un notevole successo. Detto questo, ascoltiamo di fila Giulio Cesare e Every Little Thing She Does Is Magic.
Solo per Me (poem)
Solo per Me di Filippo Albertin Bradbury insiste con la poesia. Io insisto nell'approfondire i testi di oscure band che sembrano avere in USA cinquant'anni di carriera (mi riferisco agli Sparks, e alla loro Sherlock Hokmes, che trovo stupenda e che ho pure tradotto). Bradbury scriveva a macchina nei sotterranei delle biblioteche, a 10 centesimi di dollaro per ogni mezz'ora. Io mi sono deciso di scrivere ai fosfori verdi, perché mi ricorda l'infanzia. Merlino mi salta sulla spalla per raggiungere miagolando il letto con un balzo ulteriore, uno dei tanti della sua collezione. Così come lui colleziona salti e capriole io colleziono impressioni, tentativi di memorie, ovvero prove di distillazione di un certo liquore che possa essermi utile dopo decenni di oblìo. Leggo Bradbury, mi immergo in quel poco di illuminante (e vi assicuro che è già tanto e forse troppo) che posso trarre dalla sua esistenza di scrittore. Ascolto una vecchia canzone degli Sparks che esattamente come per Twin Peaks all'epoca non avevo mai ascoltato, e già questa mi sembra antica, come la poesia che ora scrivo solo per me. Vicenza, 24 marzo 2024
Tre Cover di Sherlock Holmes (Sparks)
La canzone la adoro. Letteralmente.
Proprio per questo, e proprio per non ascoltarla mille volte cantata sempre in versione originale, ho deciso di cercare tre cover. Gli statunitensi ci sanno fare su queste cose. Sono appassionati. Ci mettono del loro.
Per non parlare di questa deliziosa ragazza…
L’Arte nel Regno di Eris (un prologo)
La mia opinione in materia è facilmente sintetizzabile in una domanda: Che arte può esistere in un mondo in cui non esiste “spaziotempo” per l’arte stessa? Mi spiego meglio… Il tutto si può comprendere identificando le due fenomenologie parallele in conflitto che caratterizzano il problema.
La prima è la sempre più risicata disponibilità di un luogo in cui l’arte possa avere una funzione. Ricordiamo a grandi linee ciò che disse Italo Calvino sui classici. Un classico — cito a memoria e logicamente sintetizzo, ma il succo è questo — altro non è che un’opera d’arte che non finisce mai di dire quello che ha da dire; ossia, un’opera che ha senso leggere e rileggere per un tempo indefinito. Ebbene, esiste oggi un’opera contemporanea che possa godere di un orizzonte temporale di questo genere?
Lo vediamo nel web: tutto è rapido, ovvero istantaneo, autoconclusivo, basato su linguaggi memetici, giudicato unicamente sull’effetto immediato, sulle reazioni che suscita al momento, indipendentemente dalla profondità o dalla funzione nel tempo a venire. Può esistere arte in grado di assurgere a “classico” in questo contesto caotico? La risposta, secondo me, è negativa, nel senso che anche ciò che affiora dovrà in qualche modalità perversa obbedire alla logica del contesto nel quale è affiorato.
Neppure i grandi autori, ormai, sfornano opere destinate a diventare dei classici, o comunque prodotti con una funzione ulteriore alla vendita di una copertina con un nome sopra. L’intero mercato dell’arte è diventato il colossale scenario di una concorrenza dell’usa e getta.
La seconda riguarda, paradossalmente, il sempre più elevato numero di “aspiranti artisti” che acquistano corsi e corsetti per fingere a sé stessi di avere un qualche talento da vendere. Un talento che però rimane confinato al mercato di cui sopra, fatto al più di compitini per casa che somigliano tanto all’output di catene di montaggio che, guarda caso, si chiamano proprio talent show.
In definitiva, ci sono troppi autori in uno spazio sempre meno frequentato da fruitori, e la risultante può essere solo vincolata alla legge dei grandissimi numeri in aree del pianeta come l’Asia o gli Stati Uniti.
Ecco perché secondo me deve per forza sorgere una nuova forma d’arte, costruita in modo tale da essere “sensatamente fruibile” nel mondo della discordia e del caos, ovvero — per usare una metafora classica abbondantemente ripresa dalle narrative discordiane — nel regno di Eris.
Maratona Twin Peaks “Il Ritorno” Parte 2
Ebbene sì. Siamo arrivati — io e mia moglie — a vedere anche tutta la terza fantomatica terza serie (il ritorno, venticinque anni dopo, o come volete chiamarla) di Twin Peaks, ivi compresa la diciottesima puntata che si chiude con una molto stressante battuta: “In che anno siamo?” (Urla del tutto ingiustificate della sosia — o non so cosa — di Laura Palmer versione stagionata, e titoli di coda.)
Quest’ultima fatica è l’ennesima di una lunga maratona che ho avuto modo di snocciolare ai miei lettori punto per punto.
Ora, non abbiamo ancora visto il film “prequel” del 1992, ok, e molti di voi diranno che no, che è una lacuna imperdonabile, che bisogna vederlo a tutti i costi per capirci qualcosa, e via discorrendo. Ma io mi chiedo: cosa mai potrei vedere in un film, peraltro riferito a fatti cronologicamente precedenti a quelli narrati nei trenta episodi della serie classica, per capire quello che Lynch ha voluto dire in questi diciotto episodi uno più melmoso e faticoso dell’altro?
Diciamocela tutta. Attori magnifici, qualche momento veramente emozionante, citazioni e auto-citazioni a non finire (molte delle quali divertenti), camei, simbolismi, e chi più ne ha più ne metta… Ma alla fine della giostra (o del giorno, per citare una canzone piantata lì per farci digerire cinque minuti di inutile amplesso) cosa mi resta di questa mitologia televisiva durata ventisette anni?
In termini di cronologia mi sono già espresso, e posso sintetizzare l’idea in poche battute. Twin Peaks nella sua versione storica altro non è che un grande successo in forma di “soap opera tinta di giallo dai toni oscuri e surreali”, dove Lynch ha pigiato l’acceleratore fino a trasformare l’intero progetto, a circa metà della seconda stagione, in un suo giocattolo comunicativo dove sperimentare gli enigmi più disparati in tema di metafore esoteriche, paradossi temporali, simbologie freudiane, possessioni demoniache, abbozzi di teorie cosmologiche sullo spaziotempo, e chi più ne ha più ne metta. La terza stagione altro non è che una colossale fan-fiction che riprende tutto questo materiale per farlo lievitare a livello parossistico, fino a un finale che ovviamente non conclude un bel nulla, ma anzi pontifica ulteriormente sulla superiorità del regista rispetto a noi comuni plebei incapaci di capire.
Ora, intendiamoci. La mia polemica non vuole assolutamente scalfire la grandezza di questo importantissimo cineasta, autore di indiscussi capolavori e caratterizzato da uno stile che, piaccia o non piaccia, ha fatto la storia del linguaggio visivo. Ma il carrozzone quasi trentennale di Twin Peaks, diciamocelo chiaramente, visto tutto in una volta appare come una grandiosa e direi anche faticosa arrampicata sugli specchi per mimare a tutti i costi la genialità onnivora di un prodotto che, in realtà, è solo una cosa: un’occasione mancata.
Le ellissi temporali, i silenzi, le assurdità disseminate ovunque, sarebbero state perfette, se solo il regista avesse dato prova concreta di sapere dove andare a parare. I viaggi nel tempo diluiti fino allo sfinimento, quelle fastidiosissime immagini in sovrapposizione — che sarebbero andate bene in un buon pezzo di Peter Greenaway, magari un documentario da Biennale — mescolate a stop-motion che pure negli anni Sessanta avrebbero giudicato fatta malamente, per non parlare dei tanti, troppi inserti astratti, che non giudico insostenibili in quanto incomprensibili, ma insostenibili perché lesivi di una qualsivoglia razionalità ritmica della narrazione, tutte, ma proprio tutte queste cose le avrei tranquillamente accettate. Ma non così. Non lungo una quindicina di ore condotte senza un minimo di solidità del costrutto “a monte” di ogni movimento e scelta registica.
Certo, mi rendo di quanto tutto il progetto Twin Peaks scaturisca in fondo da un dirottamento folle, da un compito per casa praticamente impossibile: correggimi un mystery classico “a tinte forti” per farlo diventare un trattato di tuttologia esoterica, tenendo presente che le puntate già andate in onda non si possono modificare. Però è Lynch che ha preso questa strada. Lui e solo lui ha voluto forzare la mano della produzione per giungere a questi voli pindarici.
Operazione di successo? Ok. Anche Sanremo — lungi da me il volerla associare a Lynch — ha successo, eppure a me non piace. Tanto più che l’esoterismo spiegato alle masse tramite entità demoniache frutto di errori compiuti sul set, o attraverso effetti sonori fastidiosi, o improbabili band riprese a fine puntata, non credo abbia prodotto chissà che illuminazioni mistiche negli spettatori.
Qua e là, di trovate carine, ce ne sono indubbiamente: il tema del doppio cattivo, i fratelli gangster che alla fine si rivelano di buon cuore (a mio avviso, neppure poi tanto, ma concediamo a Cooper questa licenza poetica), qualche scazzottata dai tratti abbondantemente soprannaturali, e via discorrendo. Ma il problema è un altro, e qui giungo veramente all’ultima parola sul progetto.
Twin Peaks è quello che è di solito una soap opera, ovvero un campo espressivo televisivo profondamente seriale dove il regista, giorno dopo giorno, si chiede: “Che combiniamo oggi con gli attori? A che punto siamo? Cosa possiamo inventarci?” Purtroppo, però, la forma operativa di Twin Peaks non poteva assolutamente andare di pari passo con l’obiettivo sostanziale dichiarato o fatti intendere, ossia la volontà tutta autoriale di illustrare una metafisica prepotentemente soprannaturale che — per definizione — avrebbe dovuto essere non chiara, ma chiarissima “a monte” (perdonate l’implicita battuta che allude solo per caso alle “vette gemelle”) negli intenti del regista. Cosa che non è mai stata; o, se lo è stata, non ha mai avuto modo di dare eloquente prova di sé.
Insomma, a me pare che la troppa carne al fuoco abbia “camminato con Lynch” per troppe puntate. Tanto che ora è veramente giunto il momento di mettere la parola fine, passando ad altro e confidando in progetti più unitari e comprensibili.
La Stilografica e l’Oblio
Prenderò il tema di questo articolo un tantino alla lontana, partendo da un video che mi ha fatto molto riflettere. In sé e per sé, nel video si parla di un argomento molto specifico: le penne stilografiche. A parlarne è un grande esperto del settore, Stephen Brown, youtuber da tempo riconosciuto come autore di recensioni che sono diventate un vero e proprio punto di riferimento per gli appassionati di questo sistema di scrittura.
L’argomento del video, però, non ha a che fare con uno specifico modello di penna da descrivere, o con qualsiasi fattispecie possa essere confinata nell’angusto novero della passione verso la scrittura con pennini e inchiostri liquidi. Si parla infatti di giovanissime generazioni di fronte al puro e semplice strumento stilografico, inteso come oggetto e nulla più.
Il nostro Stephen Brown, che è anche docente (credo di psicologia), e dunque ha a che fare con studenti nati all’incirca nei primissimi anni Duemila, a un certo punto si accorge di una fattispecie che lo colpisce particolarmente. Un suo allievo, prendendo in mano una stilografica (evidentemente offerta più o meno per caso dal suo insegnante, magari durante una pausa), inizia a osservarla da tutti i lati, e, provando a usarla per scriverci qualcosa, non si sa se spontaneamente o per un invito da parte dello stesso Brown, la pone sul foglio in una posizione totalmente contraria a quella corretta.
Una banalità? Certo. Ma una banalità che colpisce l’attenzione del nostro youtuber…
Ora, non stiamo dicendo che l’allievo in questione abbia iniziato a scrivere con questa penna in modo goffo, oppure che — come assolutamente legittimo — non abbia mai provato a scrivere con una stilografica, o ancora che la scrittura con inchiostro liquido e pennino non sia fatta per lui, come per tanti altri. Stiamo invece parlando di un giovane di circa una ventina d’anni, quindi non certo un bambino, che una penna stilografica non l’ha proprio mai vista in tutta la sua vita!
Stilografiche a parte, questa considerazione ha prodotto in me il classico cortocircuito, in quanto ho iniziato a collegarla a numerose fattispecie generazionali che io stesso noto, e che io stesso posso ricostruire anche solo mentalmente facendo uno più uno, giungendo a conclusioni che a mio avviso dovrebbero farci riflettere.
Così come un ventenne oggi può non sapere minimamente cosa sia una stilografica, per il semplice fatto di aver vissuto in un sistema che non l’ha mai posto neppure per sbaglio davanti a un oggetto del genere, nello stesso modo questo giovane — occorre ribadirlo, parliamo di un uomo, non un bambino — potrebbe non aver mai visto un film di Kubrick, o di Stanlio e Ollio, o del classico Hitchcock anni Cinquanta, solo per citare alcune delle centinaia di proposte cinematografiche che da ventenne, ossia una scarsa trentina d’anni fa, io avevo già da tempo abbondantemente visionato più volte attraverso il servizio pubblico.
Attenzione, io non sto parlando di opere “alte” da preferire esclusivamente ad altre “basse”, esattamente come non sto parlando di una scrittura “nobile” che possa essere imposta come standard rispetto a quella con una penna a sfera, e ci mancherebbe. Il problema è più che mai un altro. Io, come sapete, sono un musicista uscito dal Conservatorio, eppure vi posso assicurare che durante tutta la mia infanzia e prima giovinezza ho ascoltato e amato veramente di tutto, dal rock a Chopin, dal rap a Brian Eno, da Aznavour a Beethoven, passando per Luciano Berio e David Byrne, De André, i Duran Duran, Neneh Cherry e John Zorn, fino alle sigle dei cartoni animati giapponesi, e anche in questo caso la lista potrebbe continuare a lungo. Il fatto è che queste cose le ho ascoltate in quanto mi è stato concesso di ascoltarle.
Insomma, ignorare completamente l’esistenza di una scrittura stilografica storicizzata, e magari preceduta da un’altra a base di inchiostro di china e penna d’oca, oppure non sapere minimamente dell’esistenza di un cinema mystery anni Trenta, o non aver mai visto, accanto alla trilogia di Back to the Future, anche Fright Night o Il Fantasma del Palcoscenico, solo per restare nella cinematografia e non addentrarmi nello sconfinato campo dell’editoria letteraria, io credo sia qualcosa di altamente lesivo dell’individuo e della sua capacità di vivere il suo presente in modo critico, consapevole e autonomo a livello intellettuale, estetico, morale.
La nostra sembra configurarsi sempre più come una civiltà dell’oblio comandato. Coltiviamo competenze fertili in uno scenario contestuale sempre più sterile. Abbiamo decine e decine di licei e non riusciamo a creare le premesse di un insegnamento alla vita, prima ancora che al mero lavoro. Formiamo automi catatonici, non persone. I grandi festival sono diventati talent show, la discografia segue le operazioni a tavolino condotte in vitro in format televisivi e reality. Tutto ciò che viene additato dal mainstream come “qualità” altro non è che un compitino per casa svolto diligentemente sulla base di dettami stabiliti non si sa bene da chi, forse da un’intelligenza artificiale in malafede.
Insomma, che ne sarà delle stilografiche? Verranno dimenticate? Non lo so. Sta di fatto che alle stilografiche possiamo anche rinunciare. Ma a cosa rinunceremo poi?
Per una Vera Storia di Twin Peaks
Come ho spiegato altrove, io non sono stato uno spettatore “storico” dell’altrettanto “storica” serie di Twin Peaks. A suo tempo, ho assistito a questo fenomeno televisivo da osservatore del tutto estraneo e non coinvolto, in quanto l’emittente che lo trasmetteva non veniva ricevuta nella zona dove abitavo, e la sua fama mi arrivava di conseguenza per sentito dire, attraverso citazioni da parte di amici e media. Ho colmato questa lacuna ben oltre trent’anni dopo, attraverso le attuali piattaforme di streaming che mi hanno consentito di visionare la cosa quasi tutta d’un fiato, e ne ho tratto tutto ciò che avete potuto leggere.
In questo stesso blog trovate raccolti vari articoli in materia…
Per non so quale ragione, sento di dover dare un’interpretazione globale e riassuntiva dicendo quanto segue.
In buona sostanza, il sopraccitato fenomeno televisivo (non mi stancherò mai di chiamarlo in questo modo, perché esattamente di questo si tratta) si apre e si chiude in un periodo piuttosto limitato, che copre sostanzialmente il triennio dal 1990 al 1992. Tutto il materiale poi ripreso nel 2017 in quella che viene sinteticamente denotata come “terza stagione” deriva dunque da un corpus “classico” centrato in un mondo lontano anni luce dal nostro.
Cronologia: la sintesi
Riassumendo, le grandi sezioni costitutive l’universo di Twin Peaks sono quindi tre:
- Dal 1990 al 1991, prima e seconda stagione della serie televisiva, costituita più precisamente da un episodio pilota di circa un’ora e mezza, sette episodi standard della durata di circa 45 minuti, più ventidue episodi di analoga durata che vanno a costituire una “seconda stagione” in realtà abbastanza anomala, visto che l’ultimo episodio della prima e il primo della seconda risultano del tutto consequenziali, come se effettivamente la serie reale fosse costituita da trenta episodi tutti in fila.
- Un film prequel del 1992, Twin Peaks: Fuoco Cammina con Me, che di fatto viene girato non solo, come ovvio, per sfruttare il grande successo di pubblico ottenuto dalla serie, ma anche per spiegare — o tentare di spiegare — i numerosi punti oscuri della vicenda complessiva narrata.
- Una terza stagione datata 2017, dove numerosi personaggi della serie, ovvero i rispettivi interpreti reali, tornano dopo venticinque anni per una sorta di reunion globale, atta a chiudere definitivamente la vicenda con nuove rivelazioni.
Alla luce di questo quadro strettamente temporale, e sulla base del grande disappunto che nel complesso ho provato visionando tutte e tre le sopraccitate sezioni, mi sono posto come ovvio svariate domande, cercando di individuare le risposte più sensate, documentate e oggettivamente valide.
Citiamo i fatti nudi e crudi…
Primo fatto: Il progetto denominato Twin Peaks, ovvero I Misteri di Twin Peaks, nasce come “semplice” tentativo di proporre una narrazione investigativa in modalità seriale, con elementi del tutto classici, per quanto interpretati da un duo registico molto particolare (Frost e Lynch). Questi elementi, anche se inseriti in un quadro spesso a tinte forti da soap opera, per non dire bizzarri e surreali, sono immediatamente riconoscibili e di certo non nuovi: la cittadina statunitense apparentemente tranquilla e in parte isolata, il fatto delittuoso che la sconvolge, l’entrata in scena di un investigatore “da fuori”, la presenza di personaggi che sembrano nascondere qualcosa, una crescente percezione di misteri inconfessabili incarnati nella doppia vita delle vittime, etc…
Secondo fatto: Gli episodi della prima stagione, e una buona metà di quelli della seconda, propongono una ritmica narrativa che effettivamente cattura il pubblico; un pubblico che, lo ricordiamo, era quello della fine anni Ottanta, abituato alla dinamica tutta televisiva delle attese tra un episodio e l’altro, con tutto ciò che poteva derivarne in termini di passaparola e sensazionalismo. Gli ingredienti della narrazione popolare di successo ci sono tutti, e molti superano anche le aspettative: sentimenti forti, amori, tradimenti, intrighi, passioni, promiscuità sessuale, ambiguità, rapporti tra generazioni, mistero, nonché una punta di misticismo rappresentata da alcuni enigmi e procedure investigative fuori dal comune.
Terzo fatto: A un certo punto — si tratta di oggettività che non solo affiorano chiaramente dalla narrazione, ma sono state candidamente ammesse dallo stesso Lynch — accade qualcosa che cambia completamente il corso della serie. La produzione pretende che il colpevole venga rivelato prima del tempo, in quanto gli ascolti presentano una lieve flessione. Lynch accetta suo malgrado, ma a suo modo si vendica, utilizzando un girato che annovera come personaggio presente in scena per puro caso. Si tratta di un membro della troupe tecnica, per la precisione un arredatore, che però ha una faccia estremamente inquietante e una risata da folle, che a Lynch piace tantissimo. Parliamo di quello che verrà denominato col nome di Bob, e che comparirà qua e là caratterizzando da subito una svolta prepotentemente soprannaturale della vicenda. Bob è infatti una sorta di entità demoniaca in grado di possedere chiunque, e dunque di prendere la forma del corpo ospitante.
Quarto fatto: Una buona metà degli episodi complessivi di Twin Peaks si caratterizza palesemente come messa in scena di eventi sempre più bizzarri e surreali, sia nelle situazioni che nell’inspiegabile sviluppo di determinati personaggi, il tutto in crescente contraddizione sia stilistica che tematica con gli episodi precedenti. Questo vero e proprio inseguimento della reinterpretazione del “prima” già detto e del “dopo” da reindirizzare e — inevitabilmente — correggere determina un accavallarsi di situazioni grottesche che trasformano l’intera vicenda in una sorta di campo di sperimentazione dove soprattutto Lynch porta intuizioni ora disturbanti, ora divertenti, ora definitivamente noiose e autoreferenziali.
Quinto fatto: Per spiegare, a serie conclusa, la stessa serie, interviene la necessità di un lungometraggio che possa spiegare il passato di Laura Palmer nella cittadina di Twin Peaks.
Corollari, domande e risposte
La domanda mi sorge spontanea proprio in relazione a questa cronologia storicizzata, che è appunto il corpus di base al quale riferiamo tutto l’amore verso Twin Peaks.
Ora, è chiaro che l’intera narrazione in questione è scorporabile in due tronconi: da un lato, un’originaria narrazione investigativa, con personaggi accattivanti, passionali e bizzarri spinti lungo la ricerca di un colpevole all’interno di un mistero; dall’altro lato, una narrazione che si arrampica sugli specchi per correggere o reindirizzare “cose già dette e illustrate al pubblico” al fine di rendere coerente la totalmente incoerente presenza di Bob.
Come è possibile che una narrazione caratterizzata almeno da un 50% di “trame espedienti”, raffazzonate per reggere gli effetti di un errore clamoroso, possa aver generato un così vasto numero di appassionati, tanto da creare un vero e proprio universo?
La risposta a mio avviso è da ricercare nei pesi e contrappesi che si sono generati lungo le dinamiche del successo di questo fenomeno. Ossia, siamo al cospetto di un vero e proprio “evento televisivo”, in fondo concentrato, circoscritto, puntuale, confinato in tre anni di programmazione, che non solo grazie ai voli pindarici dei suoi gestori — Lynch in testa, per ovvie ragioni — ma anche e soprattutto per una serie di favorevoli congiunture è stato in grado di generare prima un crescente interesse per i suoi punti di forza, e successivamente un interesse paradossalmente maggiore per una lettura multiforme dei suoi punti di oggettiva debolezza.
Più sinteticamente, Twin Peaks è diventata una specie di grande vetrina pop in grado di veicolare sia le follie registiche di Lynch, sia svariati ulteriori contenuti che avessero diretta o indiretta attinenza con tematiche quali soprannaturale, complotti, arte e bizzarria declinata in tutte le possibili direzioni.
Attraverso questo schema interpretativo, che appunto sintetizza dati del tutto oggettivi, spiccioli e fattuali, la natura funzionale della terza stagione — ossia “il ritorno” venticinque anni dopo, peraltro contenuto nella stessa serie classica in forma di promessa — risulta immediatamente spiegata: c’era la possibilità di “riaprire la vetrina” e riprendere in mano una mitologia radicata nell’immaginario collettivo, per sfruttarla nuovamente come lasciapassare universale, e così è stato fatto, utilizzando i più evoluti strumenti del linguaggio televisivo. Il format Twin Peaks diventa nuovamente contenitore per apparizioni e camei, presentazioni di band musicali, scenario per esperimenti d’avanguardia e citazioni, colpi di scena, elementi disturbanti e volutamente messi in mostra per infastidire l’attonito spettatore, stranezze compiute nel nome dell’onnipresenza del “doppio” da sempre implicito (la traduzione del titolo, le vette gemelle), momenti comici e letteralmente chi più ne ha più ne metta.
L’intera storia di Twin Peaks narra dunque, al di qua e al di là dello schermo, la trasformazione artificiale di una serie di successo in vero e proprio giocattolo mediatico di culto nelle mani di David Lynch per veicolare gli esperimenti espressivi più disparati.
E questa è la mia ultima parola in materia. Forse.