Appunti per un Diritto alla Creatività

Per quanto il tema possa sembrare banale, per non dire addirittura contaminato da una retorica di fondo, credo che una sua trattazione sistematica e approfondita possa riservare molte più sorprese del previsto.

Ossia, è piuttosto evidente quanto pochi siano quelli che si svegliano la mattina anteponendo un auspicio del genere ai pensieri su inflazione, strade dissestate, costo della benzina e dei libri scolastici, bollette e via discorrendo. Ma credo nonostante tutto che un’idea di “diritto” al creare, nell’accezione che andremo a precisare di seguito, sia centrale e opportuna per una serie di ragioni molto eloquenti.

Definizioni di creatività

Se per creatività intendiamo banalmente il lavoro di artisti, musicisti, pittori, scenografi, scrittori e affini, allora il confinamento alla sfera professionale svilisce certamente la mia argomentazione, in quanto è evidente quanto tali campi possano costituire direttamente l’oggetto di un lavoro retribuito, disciplinato da contratti e affini. D’altra parte, se qualcuno scrive poesie o dipinge paesaggi per il proprio piacere personale, è altrettanto evidente quanto questo stesso piacere costituisca certamente un valore difendibile, ma non certo un diritto inalienabile e di fondamentale importanza.

Se invece parliamo della creatività come facoltà generale di pensare in modo alternativo, di risolvere problemi complessi, di ampliare l’orizzonte, di vedere meglio la realtà e di individuare vie inedite per lo sviluppo di idee, allora la questione diventa più vasta, e arriva a toccare ambiti sociali, filosofici, psicologici e civili che giustificano il mio assunto iniziale.

Esiste quindi una questione aperta sul diritto alla creatività, inteso evidentemente come diritto potenziale che in questo nostro mondo apparentemente così aperto e multicolore viene di fatto negato con efficacia censoria che ha dell’incredibile. Questione aperta, ma sotterranea e invisibile.

L’idea di spaziotempo

Per quel che mi riguarda, io penso che l’aspetto fondamentale per giudicare l’assenza del diritto alla creatività sia profondamente legato non già al comune tema del “tempo negato” all’individuo, per effetto di coercizioni dirette e indirette derivanti dal mercato del lavoro e dalle moderne schiavitù imposte da forme di iper-competizione ormai riprodotte ovunque, ma allo “spaziotempo negato”, cioè a un insieme di tempo, luogo e qualità degli stessi per esercitare prassi che in mancanza vengono a risultare alla stregua di diritti negati, sia pure indirettamente.

Lo spaziotempo necessario alla creatività altro non è che un tempo sufficientemente omogeneo e uniforme che si svolge in un luogo “idoneo”, ossia dotato delle caratteristiche minime per svolgere un lavoro creativo. Dico “minime” perché non è assolutamente detto che una scrivania d’oro zecchino sia migliore di una normale tavola di legno posta su due cavalletti, né che la scrittura su carta avoriata con stilografica di lusso possa garantire una qualità creativa più elevata di quella garantita da una risma di buona carta da fotocopie e una penna a sfera.

Per “qualità” e “idoneità” dello spaziotempo mi riferisco invece a una dinamica molto più sottile, che cercherò di descrivere con un esempio concreto.

Supponiamo che io sia un manager che si trova nella suite di un grande albergo a cinque stelle, con a disposizione praticamente tutto quello che serve per rilassarsi, leggere, scrivere, guardare una serie TV o un film. Supponiamo anche che io stia attendendo una telefonata molto importante, sulla base della quale potrò capire se avrò modo di continuare il mio lavoro di sempre, oppure se sarò licenziato in tronco. Supponiamo anche che questa telefonata debba arrivarmi durante la giornata. Passa un’ora, e non arriva. Passano due ore, tre ore, e ancora si fa attendere. Arriva il pomeriggio, e niente, il telefono non squilla. Così fino a sera, minuto dopo minuto.

A questo punto qualcuno potrebbe molto superficialmente dire: “Caspita, di cosa ti lamenti. Non hai fatto nulla tutto il giorno. Avresti potuto leggere, scrivere, guardarti un film, e invece hai passato tutto questo tempo a girarti i pollici.”

Ebbene, ha senso questa affermazione? Dal punto di vista strettamente (e stupidamente) “formale” ha purtroppo senso, in quanto sì, è vero, io per tutto il tempo non ho fatto “formalmente” nulla, pur avendo la possibilità “formale” di fare quello che dice il qualcuno di cui sopra.

Ma sul piano “sostanziale” io ho fatto eccome qualcosa: ho passato un intero giorno ad attendere ansiosamente una telefonata che non arrivava mai. Avrei potuto leggere, scrivere, guardare la TV? Sì, ma con che clima interiore? Possiamo pensare che questa attesa che “formalmente” individua un lungo tempo passato senza fare nulla sia anche “sostanzialmente” idonea alla creatività?

Questo esempio spiega chiaramente cosa io intenda per “qualità dello spaziotempo” come alveo naturale per lo svolgimento di un lavoro creativo.

Spiace dirlo, ma gli impegni, le responsabilità, i figli, i genitori anziani, i problemi di lavoro, le mille preoccupazioni della vita frenetica sono oggettivamente un fattore di abbassamento della qualità dello spaziotempo, ovvero della sua idoneità al lavoro creativo.

Come spero ovvio, e a scanso di equivoci, non sto dicendo che la vita possa essere priva di questi fattori, né che si possa ragionevolmente immaginare di avere a disposizione quindici o sedici ore giornaliere per esercitare non professionalmente la propria creatività. A questo mondo tutti noi siamo chiamati a lavorare, a sacrificarci, a opporre resistenza a una serie di innumerevoli ostacoli e asperità, ed è evidente che nessuno di noi può pretendere di farne a meno senza incorrere in scelte il cui radicalismo può veramente non valere la candela.

Tuttavia il nostro mondo sta andando un tantino oltre questa ragionevolezza. La frenesia, le incomprensioni, le aporie e le contraddizioni rese aspre dai conflitti e dalle fazioni che ogni giorno si fronteggiano nella Grande Rete così come nella famiglia, nelle comunità e nei luoghi di lavoro, e non da ultimo una crisi economica e sociale “di sistema” nella quale sembra veramente che tutti debbano essere contro tutti, sono tutti fattori che ci stanno sottraendo ogni forma di qualità e di idoneità da dedicare ad azioni che sono tutt’altro che puro ozio.

La creatività: il come e il perché

Semplificando all’ennesimo grado, io credo che le attività creative che permettono di generare valore entro “congrue e idonee porzioni di spaziotempo” siano sostanzialmente due:

  1. La fase creativo-percettiva, con fruizione opportunamente tranquilla e indisturbata di libri, film, opere musicali, ma anche corsi, seminari, tutorial e qualsiasi altro stimolo passivo che possa generare potenziali ispirazioni.
  2. La fase creativo-fattiva, ossia la generazione attiva di idee, scritti, opere, soluzioni, implementazioni aventi appunto a che fare con la traduzione della componente divergente del punto uno in output innovativo, utile, pregevole e in grado di migliorare la nostra vita e quella altrui.

Intendiamoci, per implementare queste due fasi serve ovviamente del tempo, ovvero dello spaziotempo di qualità che possa dirsi al riparo dalle continue richieste di mogli e mariti, figli e figlie, genitori, colleghi, seccatori e via discorrendo. Ma non stiamo parlando di chissà che soggiorni vacanzieri nell’isola che non c’è.

Un lavoro creativo di altissima qualità può svolgersi tranquillamente lungo tre o quattro ore a settimana. Basta solo che in queste ore non ci sia nulla che possa disturbarci a parte il gatto che vuole le sue crocchette.

Pensiero Visuale e Decadenza Editoriale

Il pensiero visuale ci permette di cogliere sfumature che hanno anche a che fare con la storia della cultura. Da questo punto di vista, un esempio che letteralmente mi ossessiona è quello legato a un testo romanzesco divenuto ormai un classico.

La prima edizione del libro Il Pendolo di Foucault è a mio avviso estremamente istruttiva, specie se letta visualmente in relazione alle altre copertine che sono state utilizzate, negli anni, per confezionare questa opera narrativa nelle sue successive edizioni.

Cosa vediamo in questa prima versione? Ciò che vediamo è un primo piano della Tout Eiffel, proposta in un’elaborazione grafica (o fotografica, la cosa non è chiara, ed è un bene sia così) molto diversa dalle raffigurazioni stile cartolina che di solito siamo abituati ad associare ai monumenti nazionali di così plateale valenza iconica. L’immagine è in negativo, fondo scuro blu notte, netto, vibrante, in piena contrapposizione con l’azzurro delle volte metalliche, contemplate da un punto di vista ravvicinato, per non dire adiacente. L’immagine è sintetica e misteriosa. Non racconta nulla. Si limita a fotografare una sensazione.

Ebbene, questa sensazione indotta è per quel che mi riguarda la più fedele al romanzo di tutte quelle che sono venute dopo, a riprova del fatto che — ecco la valenza culturale del pensiero visuale — l’editoria dei tempi seguenti è andata via via decadendo verso pose e atteggiamenti sempre più banali.

Ma andiamo con ordine. Perché questa immagine è così attinente alla narrazione? Senza fare particolari spoiler (cosa peraltro impossibile per un romanzo fiume come questo), basti dire che la raffigurazione ravvicinata della Tour Eiffel si riferisce esplicitamente a una scena. Riassumendo, un personaggio chiave, peraltro anche voce narrante in prima persona dell’intero romanzo, si trova a Parigi, nel pieno di un fuga da qualcuno che ha commesso qualcosa. L’atmosfera è febbrile, concitata, in quanto la mente del fuggitivo è letteralmente ricolma di simboli, teorie, congetture, che fanno capo a Parigi come centro nevralgico di una congiura secolare. Il mondo frenetico appare come rappresentazione di qualcosa che i più non riescono, ovvero non possono vedere e comprendere. Ecco quindi che l’apparizione improvvisa della torre metallica, sotto la quale avviene parte della fuga, suscita nel protagonista un cortocircuito mentale attraverso il quale comincia a intravedere un senso nel caos: il monumento è in realtà una gigantesca antenna, un mostro di viti e bulloni, in grado di cogliere le energie telluriche e di rispedirle altrove per colpire e distruggere, controllare la materia e il pensiero a distanza, imporre il predominio sul mondo per effetto di una vendetta radicata nella storia.

Siamo al cospetto, quindi, di una perfetta sintesi grafica, che in un secondo, a livello subliminale, illustra il romanzo nel suo cuore tematico.

Cosa accade nella versione economica del medesimo testo? L’immagine, intendiamoci, è ancora molto attinente alla narrazione, ma riporta un insieme di simbologie e mappe circolari — rosoni, mandala, tavole sefirotiche — che illustrano e restituiscono all’osservatore un unico termine e fenomenologia: l’esoterismo di ogni ordine, grado, latitudine ed epoca storica.

Immagine evocativa, intendiamoci, e certamente opportuna. Ma che sarebbe stata ugualmente adatta anche per accompagnare un testo effettivamente esoterico, di natura e funzione puramente saggistica o storica: una storia della magia, o un vero e proprio manuale del novello apprendista stregone moderno.

Siamo circa a un lustro dalla prima edizione, e già l’editoria italiana punta ad una grafica più diretta e autoreferenziale, con un tono esplicito che si mantiene sempre sull’estrema raffinatezza — quelle ruote occulte che affiorano dal buio, porgendo simbologie e viraggi di colore dal freddo al caldo, sono oggettivamente sublimi — ma certamente si lascia alle spalle l’intellettualismo sottile del passato. I tempi, insomma, stanno cambiando. lentamente ma inesorabilmente.

Arriviamo quindi all’ultima iconografia illustrativa, sfruttata sia dalle ultime edizioni note, sia da quella per così dire definitiva, approdata anche alla casa editrice voluta, tra gli altri, dallo stesso Umberto Eco, La Nave di Teseo.

Qui la banalità espositiva regna sovrana. Vediamo una semplice foto aerea di Parigi, con un gargoyle oscuro che osserva un punto imprecisato dell’orizzonte. Qualche “simpatico” schema esoterico buttato qua e là ammiccava al contenuto nelle passate edizioni Bompiani, ma nell’ultima anche queste aggiunte scompaiono; rimane una piatta foto in bianco e nero, anonima e contemporanea, molto più simile al post di un mediocre fotografo amatoriale che alla copertina di un capolavoro letterario della modernità.

Siamo in definitiva passati dalla sottigliezza dell’intelletto alle risate registrate, o se preferite agli applausi comandati da un deficiente che si sbraccia in uno studio televisivo.

La mia dissertazione finisce qui, visto che mi pare non ci sia molto da dire, se non rimarcare quanto la nostra acutezza visiva e intellettuale si sia negli anni dispersa nel nulla, provincializzata, ribassata in un mercato che ormai non ha più nulla da dire, e cerca di piazzare anche la grandezza del classico in modalità volgari o comunque non all’altezza dell’originale.

Verde Metro Parisien

La casa francese J. Herbin, storica produttrice di inchiostri stilografici, ha messo sul mercato una serie di prodotti che vanno a celebrare Parigi e le sue iconiche architetture. Tra questi, sono rimasto particolarmente affascinato da questo verde Metropolitain, che rende omaggio alle decorazioni floreali e Art Nouveau tipiche delle entrate in metropolitana.

L’amico Stilorso ha dedicato a questo specifico inchiostro una degnissima e articolata presentazione, con tanto di recensione tecnica e prova di scrittura.

Il verde in questione fa parte della grande famiglia dei “viridian”, con tonalità tipiche dello smeraldo. In sostanza, un verde con una leggera tendenza al blu, fortemente differenziato dalle tonalità oliva o avocado che invece virano sul giallo. La tinta mi affascina soprattutto perché è effettivamente retrò, e ricorda perfettamente il verde ossidato di questi virgulti metallici così tipici di un’epoca.

Una parte di me è ancora legatissimo a queste memorie storiche. Associo queste sensazioni a una città italiana ovviamente ben diversa da Parigi, che però, verso la fine degli anni Ottanta, regalava a me ragazzino le stesse impressioni estetiche: parlo di Salsomaggiore Terme e del suo rigoglio ormai perduto, che mi vedeva assiduo frequentatore vacanziero delle Terme Berzieri, tra gli affreschi di Galileo Chini e le folle che si muovevano tra cocktail, musica pianistica e vapori benefici.

Essendo un amante delle “combo” tra stilografica e relativo inchiostro, ho deciso di celebrare l’incontro tra antico e moderno inserendo questo verde in un modello a sua volta iconico: la tedesca Lamy Safari (design 1980), nella versione Vista (ossia trasparente). Il connubio rende l’idea di due tempi che si incontrano: uno effettivamente remoto, l’altro comunque nostalgico e a suo modo già entrato in una logica archeologica.

Che dire. Mi è venuta voglia di un boccale d’assenzio…

Programmi Programmatici

Ho deciso di mantenere separate le mie attività nel web.

Da un lato le cose antiche, analogiche, o legate alla tecnologia 1.0 in tutte le sue persistenti forme, che saranno tutte stivate nei miei luoghi della Vivaldi Community, vale a dire Palmbeach Blog e Palmbeach Mastodon. Dall’altro lato, ossia lungo la direttrice della modernità, del presente, del caos digitale in ogni sua forma, tutto il resto: (questo) WordPress, BlueSky, Mastodon Social… In questo ambito non ho intenzione di essere forzatamente moderno. Anzi, sarò esattamente quello che sono: una persona costantemente oscillante tra nostalgia e presente.

Resta fuori il mondo Twitter/X, che vorrei tenere sostanzialmente separato in una bolla con Medium. Non chiedetemi perché.

Infine, l’ambito più seriamente anarchico, che vorrei relegare all’isola Crypto Cypher su Noblogs. Direi che questo è quanto…

Pixelfed the Seducer

Il titolo di questo mio post saccheggia quello di un noto album — che dico album, capolavoro — dei Ladytron, risalente ormai a quattordici anni fa. La componente della seduzione è evidente, come in tutto quello che riguarda sua maestà il fediverso. Questo per dire che sì, l’arrivo della tanto annunciata applicazione mobile di Pixelfed mi ha indotto a spingere sul mio account con tutte le forze!

Pensavo di utilizzare questo luogo in sostituzione di Instagram, luogo che letteralmente detesto, ma che continuo a tenere, esattamente come accade per il gemello Facebook, solo per ragioni di etichetta. Potrei convertire in “fediverso pensiero” un po’ tutta la mia produzione in termini di visual thinking creativo. Sarebbe interessante.

Pixelfed Social consente di commentare le proprie immagini con ben 2000 caratteri. Praticamente una piattaforma di blogging, visto che manco Mastodon Vivaldi Social arriva a tanto (si ferma peraltro al simbolico numero di 1337, che di certo non è poco). Razionalità, fediverso, alternativa al mainstream: tutte cose che mi piacciono.

I 500 caratteri di Mastodon Social vanno benissimo per un diario quotidiano, che, diciamocelo, in un comune blog longform-oriented ormai non ha più senso. Ci penserò in modo operativo e concreto, anche perché, di fatto, ad oggi il mio diario quotidiano nel web non so bene dove sia, visto che preferisco di gran lunga le annotazioni cartacee. Da questo punto di vista, ho trovato estremamente produttivo questo video, che parla del metodo minimalista di note taking di Sam Altman.

Da notare che Pixelfed può essere usato proprio come veicolo per trasmettere a un vasto pubblico le proprie annotazioni su carta. Semplice, banale, ma geniale sul piano fenomenologico. Decisamente seduttivo.

Concludo il Dune di Villeneuve

Il film di ieri sera: Dune – Parte Due, degnissima continuazione del già bellissimo primo episodio visto qualche tempo fa.

Considerazioni su letteratura di genere e cinema. Di fatto, Il Signore degli Anelli è il grande “parallelo” che viene in mente pensando a questo. Con la differenza che se l’ormai storicizzata trasposizione della grande opera di Tolkien proprio non mi è piaciuta, questo Denis Villeneuve ha invece diretto (microbici dettagli a parte) un capolavoro, o come minimo un film troppo diverso e superiore rispetto ai suoi presunti simili per non essere identificato in un netto, sconcertante salto di qualità.

Il film è appunto profondamente letterario, in grado di veicolare non dico in scala uno a uno, ma con estrema fedeltà, la natura iconica e simbolica di questa grande pietra miliare della letteratura di genere. Per una volta non abbiamo la solita azione, i soliti combattimenti cuciti insieme dalla retorica a base di grafica computerizzata e ruoli stereotipati. Dentro questa scatola percettiva ci sono intuizioni, respiri, domande, scenari che rispondono a precise indicazioni ben oltre l’estetica e giungono a intercettare autentiche architetture intellettuali.

Non siamo logicamente ai livelli psichedelici (almeno sulla carta) della “pellicola mancata” di Jodorowsky, ma di certo Villeneuve quei materiali li ha letti e approfonditi più volte.

Diario 5 Gennaio 2025 Mattina

Colazione con caffè, latte d’avena e cereali con frutta disidratata. I gatti sono molto attivi la mattina; divorano, letteralmente, il superfood (che ieri ho visto bene di ricomprare in quantità). Selene, soprattutto, subito dopo mangiato adora essere di vedetta.

Uno di questi giorni toglierei questa mensola…

Al lavoro sul concetto di obiettivi SMART (design thinking). Inoltre, dettagli interessanti in materia di storytelling aziendale. Quel giapponese lì che mi fa lezione è stimolante. Lento, lentissimo, ma almeno a tratti stimolante. Molto applicabile il concetto di immagini che non dicono due volte la stessa cosa. Ne terrò conto.

Altra cosa sulla quale vorrei lavorare è il concetto operativo d’uso “totale” di WordPress. Ci sono ancora troppe funzioni grafiche e procedurali che non utilizzo. Familiarizzarsi. Rendere standard. Farci la mano, insomma.

Sono tornato al vecchio design. Mi permette di contenere ordinatamente più cose, quindi non ho esitato a ripristinarlo. Alcune idee: un blog cattivissimo; qualcosa che possa suonare esattamente come un lavoro architettonico di Brian Eno (in riferimento a un progetto qui vicino, all’entrata di Vicenza, che porge una struttura illuminotecnica veramente degna di nota); evitare contentini (o, per usare un altro neologismo, permissioni).

Diario 4 Gennaio 2025 Mattina

Sono da poco tornato alla base vicentina. La vacanza ad Acquapendente è stata accompagnata da due corsi piuttosto interessanti: design thinking e storytelling aziendale. Altri cacciaviti nella cassetta attrezzi, si direbbe.

Tornato anche su Instagram, non mi si chieda perché. L’ho trovato pieno zeppo di cazzate AI-based, tra cui psicologhe virtuali online e segretarie varie. Terribile. Il tutto mi ricorda un articolo che ho scritto qualche tempo fa, Il Mito dell’Attore Eterno, direi sempre più sconcertante nella sua attualità. La futurologia dovrebbe interrogarsi a fondo su queste dinamiche.

Ho pensato che, in termini di scrittura (personale) per il web, la modalità migliore rimane quella della pubblicazione automatica a partire da un determinato HUB. Nel mio caso, questo stesso blog (stile composition book) funge da HUB; pubblica poi automaticamente su Bluesky, Mastodon e Tumblr. Un solo anello per domarli tutti.

Riflessioni sull’Oblìo Stratificato

La funzione intellettuale, ci pensavo oggi, di fatto non esiste più. Non esiste in quanto interessata da un processo di esclusione iniziato ormai svariati anni fa, tramite un meccanismo di oblìo stratificato oggi definitivo. Ergo, un nuovo intellettuale deve sorgere come araba fenice dai residuati del pregresso. Un intellettuale evidentemente avulso dalla (essa stessa) scomparsa editoria cartacea, per esempio; per non parlare di un servizio pubblico che ormai assume la forma di un vero e proprio disservizio pubblico. La piazza pubblica ormai non esiste. Non ha orecchie per ascoltare, e questo scenario di menefreghismo al quadrato è più che mai teatro di potenziali sfide creative interessantissime.

L’intellettuale del presente, così come quello del futuro, innanzitutto non si chiamerà più intellettuale. Lo vedrei, al contrario, come gestore di intelletti altrui. Gli strumenti della modernità caotica saranno imprescindibili, ma dovranno essere riformulati per un uso in grado di veicolare memorie e idee del passato. Credo che molto dell’atteggiamento euristico debba essere tratto da una coltre polymath rappresentata da autori eclettici: Austin Kleon, Brian Eno, John Zorn, roba così… Gente che necessariamente lavora (più o meno consapevolmente, visto il rizoma infinito di connessioni che ciascuno di questi autori porta con sé) con quella che Edward De Bono chiamava creatività seria.

Ci penserò…