I primi blogger della (chiamiamola) “storia del Web” erano essenzialmente degli avventurieri singoli e singolari della rete che avevano solo un obiettivo: condividere esperienze a distanza, costruendo relazioni attraverso lo strumento ipertestuale. Strumento che, giova ricordarlo, era una sostanziale novità, per giunta confinata al contesto degli addetti ai lavori.
Il Web delle origini era un mezzo “straordinario” nel senso specifico di non ordinario. Di conseguenza, le relazioni che si intendevano ricercare ne riproducevano la medesima non ordinarietà.
Mi pare evidente quanto oggi come oggi la sostanziale ordinarietà del Web sottenda un bacino d’utenza così vasto da risultare altrettanto ordinario, nel senso di banale, chiassoso, sovraffollato, caotico, spesso greve, commerciale, gretto, solo capace di porgere l’ennesimo invito all’azione pecuniaria per acquistare fantomatici corsi o servizi in grado di trasformarci in multimiliardari.
Quanto al sistema culturale dei cosiddetti influencer, stendo un pietoso velo.
Eppure a me piacerebbe tornare, in qualche modo, a quel tipo di blogging! Mi chiedo: Sarebbe possibile? Se sì, in che senso? In che modo? Sulla base di quale strategia?
Io credo serva una ridefinizione del punto di vista. Dobbiamo cioè evitare l’idea che il Web sia una macchina per raggiungere il “pubblico indifferenziato” di ogni ordine, grado e latitudine. Ossia: oggi come oggi è evidente che la rete fornisce strumenti di marketing, ma il vero blogging (inteso ovviamente come appendice del tutto privata, completamente slegata da precis obiettivi commerciali) non può essere, secondo me, uno strumento di basso marketing relazionale.
Nel mio blog, io non vendo me stesso, ma sono me stesso. Lo sono in una prospettiva potenzialmente pubblica, ma non certo universale. Più precisamente, comunico agli altri esattamente come vorrei si comunicasse a me.
In questo, riproduco quell’antico atteggiamento dei vecchi blogger, pionieri di questa forma di scrittura.
Ho coniato una nuova sigla, NOLONGFORM, per caratterizzare la mia “idea manifesto” per il mio, chiamiamolo, blogging style. Si potrebbe anche optare per una versione ulteriormente abbreviata in NOLOFO, che già mi piace ancora di più.
Sto scrivendo questa cosa con un mio vecchissimo laptop targato Compaq, ormai ridotto a una sorta di reperto cyberpunk. A parte l’architettura a 32 bit, ormai in totale disuso, lo strumento è letteralmente un rattoppo: batteria inesistente, funzionamento in presa diretta con caricatore rigorosamente non originale, adesivi ovunque, tastiera unta e bisunta (ma ancora fantasticamente comoda), nonché hard disk disintegrato (che non so come faccia a funzionare, peraltro piuttosto bene) e ventola sempre in tiro.
Però continua a piacermi. Si tratta di uno di quei computer che nostalgicamente mima la velocità di un tempo, non supportata da chissà che prerogative hardware. Il sistema operativo è un’antica versione di Ubuntu MATE, ovviamente priva di qualsiasi supporto.
L’idea di una prassi targata NFP (Non Fungible Posting), annotata stamane nel mio Mastodon. Interessante. Si parla della scrittura nel web (ossia, nel Web3) come di una potenziale modalità aumentata, che consenta non solo di leggere, ma anche di collezionare in uno spazio privato. (Come ovvio, o come spero ovvio, c’è di mezzo la blockchain.)
Un calligramma digitale. Omaggio indiretto a Brion Gysin.
Tutto questo ha a che fare con l’idea determinante di composizione. Laddove l’intelligenza artificiale svolge ormai tutto al tuo posto, c’è poco da fare: l’arte vera più che mai sorge dalla capacità di comporre in sequenze spaziotemporali sensate.
Lungo una serie abbastanza corposa e apprezzata di NFT collezionabili snocciolati nella mia pagina Cent ho cercato di fare esattamente questo, anche se la dotazione fattuale di ispirazioni non mi ha permesso di sfruttare la tecnica fino in fondo, o almeno come vorrei. Ma sono comunque soddisfatto. Ho una marea di collezionisti che possiedono volontariamente quello che scrivo e associo “compositivamente” a immagini, video e altre espressioni multimediali.
A vario titolo e per varie ragioni, in questo periodo mi sto interessando di creazione di contenuti; ovvero, della (fantomatica) figura del content creator.
Il contenuto e la tecnologia
Per quanto la perifrasi sia effettivamente l’ennesima — diciamocelo chiaramente — mistificazione che usa l’inglese come lasciapassare di un’originalità del tutto presunta, che nasconde certamente cose antiche e banali (dal coworking che è e rimane un banale “affitto di scrivanie” ai vari talk che altro non denotano se non “discorsi in pubblico” che si tengono dall’epoca di Cicerone esattamente nello stesso modo), il mondo attorno alla creazione di contenuti è certamente interessante.
La ragione di questo interesse è sicuramente il rapporto tra mondo fisico e mondo digitale, con uno sguardo molto attento alle tecnologie che oggi permettono di liberarsi più o meno totalmente di ogni figura intermedia tra creatore e fruitore. Parlo essenzialmente della blockchain, ossia di quel costrutto informatico che ha permesso la nascita e l’ascesa delle cryptovalute, e oggi sta alla base della rivoluzione degli NFT, token non fungibili che mimano alla perfezione il comportamento di un’opera d’arte unica e irripetibile che passa di mano in mano — di wallet in wallet — attraverso procedimenti crittografici automatizzati.
Senza tanto perdere tempo nel parlare degli altri creatori di contenuti, parlerò di me. Perché sì, io mi ritengo un creatore di contenuti, nonché un docente — versato in tecniche creative e di visual thinking (ok, questa volta ho usato io un termine inglese, ma solo per necessità di sintesi) — che ha spesso insegnato ad altri ad esserlo. Quindi, vorrei fare il punto su me stesso.
Una sorta di manifesto (valido forse solo per me)
A me capita di fare tante cose. Sono un crypto entusiasta che lavora come consulente freelance Bitcoin e Altcoin, ma adoro i film degli anni Trenta. Disegno in bianco e nero su carta, eppure adoro l’arte digitale e i suoi luminosi cromatismi a schermo. Colleziono e uso penne stilografiche di ogni tipo, ma quasi sempre scrivo a schermo. Amo il synthpop anni Ottanta che veniva veicolato da musicassette fisiche (peraltro tornate di moda), però non potrei fare a meno degli mp3. E via discorrendo.
Non ho mai amato le accozzaglie, né mai le amerò; ma di certo il rapporto tra digitale e analogico mi ha insegnato un dettaglio illuminante. Il vero e grande punto di forza del “mezzo” informatico e telematico è la capacità di veicolare con assoluta efficacia ed efficienza un mix di elementi multimediali eterogenei in una forma univoca e coerente.
L’idea deriva dalla mia lettura di Steal Like ad Artist, di Austin Kleon. Il creativo colleziona cose diverse, apparentemente conflittuali e non miscibili. La sommatoria di tutte queste, però, restituisce l’identità del creativo stesso. Quindi non bisogna tanto preoccuparsi di come verranno assemblati certi materiali. L’importante è collezionare tutto ciò che sembra significativo, scartando il resto.
Quando osservo qualcosa che mi piace, subito dopo averla collezionata (leggi, rubata) inizio subito a chiedermi con quale altra poterla remixare al fine di comunicare quel qualcosa che non posso fare a meno di comunicare.
L’arte, per me, è un remix. Non necessariamente un remix di oggetti posti sullo stesso livello. Può essere anche un remix inedito di stili applicati a un determinato soggetto, o di posizioni filosofiche, o di colori, forme, approcci, cornici, schemi.
Ma attenzione. Il mio metodo — o manifesto — non indica nel remix una sorta di “a prescindere” estetico. Al contrario, io mescolo solo se posso in qualche modo intuire un senso, una particolare efficacia.
Ultimamente, per esempio, sono affascinato da come un normalissimo post di blog — cioè un articolo — possa diventare vera e propria opera d’arte collezionabile attraverso la tecnologia dei non fungible token. Se ci pensiamo, un articolo è esattamente un remix: di immagini, testo, video, musica… Quale forma migliore per veicolare l’idea di arte che ho appena descritto?
Nella mia pagina Cent, propongo spesso opere collezionabili (quasi sempre gratis, a volte a pagamento) in forma, appunto, di articoletti con un titolo, alcune frasi e una o più immagini.
A volte remixo immagini puramente digitali. Altre volte riciclo miei disegni attraverso tecniche di rielaborazione cromatica, riproducendo effetti che altrove mi sono piaciuti.
Dal punto di vista strettamente estetico, direi che il risultato finale, nella sua varietà “riconducibile a me”, mi soddisfa. Nonostante questa soddisfazione, però, io ritengo che il ruolo di un content creator oggi come oggi non possa prescindere da qualcosa di più. Questo qualcosa in più a mio avviso somiglia molto — mi si passi la perifrasi piuttosto pindarica — all’idea di smart contract che sta alla base del funzionamento di determinate transazioni in blockchain. Ossia: ciò che noi oggi possiamo chiamare arte, o più in generale design, sia esso fatto con carta e penna, sia esso elaborato con le più articolate tecniche elettroniche di rendering tridimensionale, non può viaggiare senza un contenuto ulteriore. Questo contenuto secondo me è l’appartenenza a una community, a un pensiero comune, a una condivisione di strumenti e filosofie… Tutte cose che un NFT può veicolare in modo automatico tramite il suo meccanismo di funzionamento.
Un NFT collezionato è frutto di una transazione. Può essere una transazione in denaro (digitale), oppure un regalo fatto a fronte di un’azione. In ogni caso, lo specifico NFT posseduto dal singolo è di volta in volta biglietto, tessera annuale, amuleto, lasciapassare, chiave di sblocco funzioni all’interno di un sito, prova di fedeltà, status symbol, oggetto da apporre come avatar, e mille altre cose.
Conclusioni
L’arte digitale deve diventare strumento di comunicazione operativa, spicciola, terra terra. Abbiamo bisogno di comunità dove l’estetica possa sfumare nella tokenizzazione del tutto.
Abbiamo bisogno di diffondere una cultura di creatività capillare, a disposizione di chiunque.
Il content creator, dunque, deve diventare protagonista in un contesto completamente opposto a quello, presunto e presuntuoso, del mero testimonial, che al contrario non produce nulla di originale, ma si adegua alla dittatura dello sponsor di turno, o dell’agente, o di qualsiasi altro elemento di mediazione non alla pari.
Un vero e proprio manifesto, dunque, il mio. Che propongo a voi esattamente così, senza alcun filtro o mistificazione.
Escludendo per un attimo gli illustri predecessori ai fosfori verdi della comunicazione testuale per via telematica, un fatto è certo: il blogging nasce poco dopo la diffusione di internet; precisamente, nella sua forma “popolare”, nel 1999, con lo storico Blogger di Pyra Labs. (Il leggendario Dave Winer ha guarda caso denominato 1999 una sua piattaforma di “old style blogging”, che peraltro io stesso utilizzo.)
La scrittura nel web (questa in fondo la perifrasi che meglio denota lo scrivere in un blog, contrazione di web-log, diario in rete) ha attraversato come ovvio molti stili. In sostanza, però, i grandi blogger si sono mossi sempre tra due estremi nell’uso dello strumento ipertestuale: il giornalismo anonimo, centrato su temi di interesse comune e sulla disinibizione nel trattarli attraverso la maschera di un nickname, e il giornalismo esistenziale, ossia la scrittura descrittiva della vita, delle esperienze e delle opinioni di un autore con nome e cognome, presentato senza filtri.
Non serve chissà che esperienza per capire quanto il blogging sia passato in secondo piano dopo lo sviluppo dei grandi social network, primo fra tutti, come ovvio, Facebook.
Personalmente, “bloggo” esattamente da quando esistono i blog, e non mi sono mai stancato di scrivere per il web attraverso questa forma seriale. Il mio blog di turno è migrato da piattaforma a piattaforma, scivolando tra nomi noti e meno noti, alcuni dei quali oggi non esistono più.
Sta di fatto che questa morfologia ipertestuale (oggi anche multimediale) dello scriveremi piace ancora, e credo resti lontana anni luce dalla banalità del “dire la propria” in un comune e affollato social network.