Ho realizzato un’idea: la scrittura a sé stessi. Francamente non credo di scrivere a qualcuno. Perché dovrei? Ma soprattutto, perché qui? Il web non è fatto di ascoltatori, di lettori, o di relazioni. Il web è arraffare tutto quello che, non si sa bene perché, viene prodotto gratuitamente da autori che a vario titolo se lo possono permettere, indipendentemente dalla qualità di ciò che scrivono.
Quindi no, non scrivo per chi mi legge. Scrivo perché a un certo punto mi leggo, e mi rileggo. Lo faccio soprattutto coi miei vecchi taccuini, che mi permettono di usufruire di informazioni che avevo dimenticato, e che mi sono ancora utili.
Sono sempre rimasto a dir poco affascinato dai blog dattiloscritti, una sorta di moda di qualche tempo fa, che fondeva appunto il mezzo digitale con l’arte di passare allo scanner fogli di carta imbrattati da strumenti analogici di scrittura.
Innanzitutto bisogna capire che non siamo nessuno. Essendo tanti “nessuno”, la sola cosa che possiamo raggiungere è un avanzamento del nostro essere al cospetto di noi stessi. Solo dopo questo avanzamento potremo diventare qualcuno.
Filippo Albertin
Il disegno di ieri, conservato nel mio ormai proverbiale logbook cartaceo.
Ormai questo è il mio standard. Mini-notes Clairfontaine “Aged Bag” e adesivi vari (specie asiatici). Di solito uso però copertine colorate. (Colonna sonora: John Zorn.)
Un grazie anche ad Austin Kleon per questa playlist (preview)…
Stamattina, di fronte alla casa dei genitori di mia moglie, ho avuto modo di incontrare nuovamente la gattina che avevo conosciuto alcun giorni fa. Ancora una volta, non ha disdegnato le mie coccole, questa volta erogate “in regime di stretching estremo” vista l’altezza del muretto di cinta.
Il caffè del mattino. Direi, che solo di quello, e di gatti accoccolati, si potrebbe esistere su questo pianeta.
Di libri, anche. Ma di quelli vecchi, rigorosamente cartacei, ossia pesanti, concreti, quelli che ancora sottendevano l’intelletto di chi li aveva scritti o accorpati.
La mia opinione in materia è facilmente sintetizzabile in una domanda: Che arte può esistere in un mondo in cui non esiste “spaziotempo” per l’arte stessa? Mi spiego meglio… Il tutto si può comprendere identificando le due fenomenologie parallele in conflitto che caratterizzano il problema.
La prima è la sempre più risicata disponibilità di un luogo in cui l’arte possa avere una funzione. Ricordiamo a grandi linee ciò che disse Italo Calvino sui classici. Un classico — cito a memoria e logicamente sintetizzo, ma il succo è questo — altro non è che un’opera d’arte che non finisce mai di dire quello che ha da dire; ossia, un’opera che ha senso leggere e rileggere per un tempo indefinito. Ebbene, esiste oggi un’opera contemporanea che possa godere di un orizzonte temporale di questo genere?
Lo vediamo nel web: tutto è rapido, ovvero istantaneo, autoconclusivo, basato su linguaggi memetici, giudicato unicamente sull’effetto immediato, sulle reazioni che suscita al momento, indipendentemente dalla profondità o dalla funzione nel tempo a venire. Può esistere arte in grado di assurgere a “classico” in questo contesto caotico? La risposta, secondo me, è negativa, nel senso che anche ciò che affiora dovrà in qualche modalità perversa obbedire alla logica del contesto nel quale è affiorato.
Neppure i grandi autori, ormai, sfornano opere destinate a diventare dei classici, o comunque prodotti con una funzione ulteriore alla vendita di una copertina con un nome sopra. L’intero mercato dell’arte è diventato il colossale scenario di una concorrenza dell’usa e getta.
La seconda riguarda, paradossalmente, il sempre più elevato numero di “aspiranti artisti” che acquistano corsi e corsetti per fingere a sé stessi di avere un qualche talento da vendere. Un talento che però rimane confinato al mercato di cui sopra, fatto al più di compitini per casa che somigliano tanto all’output di catene di montaggio che, guarda caso, si chiamano proprio talent show.
In definitiva, ci sono troppi autori in uno spazio sempre meno frequentato da fruitori, e la risultante può essere solo vincolata alla legge dei grandissimi numeri in aree del pianeta come l’Asia o gli Stati Uniti.
Ecco perché secondo me deve per forza sorgere una nuova forma d’arte, costruita in modo tale da essere “sensatamente fruibile” nel mondo della discordia e del caos, ovvero — per usare una metafora classica abbondantemente ripresa dalle narrative discordiane — nel regno di Eris.
Ho trasferito qui il mio (quasi) storico blog in WordPress. Ora sto provvedendo a trasferire i vecchi contenuti per rilanciare il tutto in una nuova, nuovissima forma.
Il perché di questa mia scelta è presto detto. Io uso tantissimo Vivaldi Browser, uno strumento per me assolutamente inarrivabile. Tuttavia, il team di sviluppo di tale pezzo di software nasce circa una decina scarsa di anni fa da un fork burrascoso relativo all’analogo progetto Opera, browser che molti di voi conosceranno come nativamente crypto friendly. Ora, io ritengo che un browser debba essere solo e unicamente un browser, e che la scelta di non occuparsi di cryptovalute “dento un browser” sia non solo pienamente legittima, ma addirittura opportuna (ecco perché io oggi uso Vivaldi, non Opera, e neppure Brave). In altri termini, che sia il mercato dei plugin, e non il codice nativo, a caratterizzare il web3 all’interno di un certo browser.
Il problema è che tutto il team Vivaldi, sulla scia di questa legittima scelta tecnica ha innescato una vera e propria crociata globale contro le crypto in quanto tali (per ragioni logicamente molto deboli), obbligando tutti i partecipanti alla sua community (che annovera anche un’istanza Mastodon) di non parlarne mai.
Un atteggiamento, questo, a mio avviso del tutto sbagliato, che evidentemente mi avrebbe portato a ridimensionare il mio rapporto con questo gruppo di programmatori, indipendentemente dalla pregevolezza — che continuo a difendere — del loro prodotto.
A dirla tutta, il comportamento delle alte sfere di Vivaldi si è dimostrato in materia piuttosto discutibile e schizofrenico, soprattutto in relazione a un fatto che ebbi modo di portare alla luce qualche tempo fa. Un certo promotore del browser, infatti, fu nel marzo 2023 molto candidamente presentato al vasto pubblico (con post immediatamente cambiato a causa appunto del mio disappunto espresso frontalmente al frontman vivaldiano Jon S. von Tetzchner) come attivista impegnato nella diffusione della privacy coin zCash, cryptomoneta ben nota nel settore. Ebbene, la mia protesta piuttosto accesa ebbe come risultato la rimozione dalla maglietta (della versione grafica) del sopraccitato promotore del simbolo di zCash, che fu sostituito — piuttosto goffamente — prima da un cerchio giallo vuoto, e poi da una “V” che stava per Vivaldi.
Su Twitter mi capitò, come vedete, di fare un po’ di casino in materia, e ci fu uno scambio di battute piuttosto accese in un forum.
Insomma, ci ho pensato a lungo, e a lungo non ho preso particolari provvedimenti. Il mio “vecchio Navigazioni Annotate” era appunto ospitato dalla community di blogger di Vivaldi, che si estendeva, come detto, in una succursale su Mastodon. Ogni volta che volevo liberamente dire qualcosa dovevo pensare quindi ad autocensurare tutta la parte direttamente legata alla rivoluzione blockchain, e a selezionare ciò che potevo dire, destinando ad altre piattaforme il resto. Insomma, un lavoraccio fastidioso, no? Ecco perché ho deciso di spostarmi.
Ho ancora un blog in Vivaldi, ma sotto diversa identità. Sto studiando creativamente il modo di utilizzarlo, e credo di essere giunto a una conclusione: se vuoi che mi nasconda, allora utilizzerò questa tua risorsa sotto pseudonimo, e con intenti molto vicini all’hacking cyberpunk. Ossi, se pensi che le crypto siano un gioco sporco, allora eviterò di parlare di crypto, e farò quello che tu mi permetti di fare trasformandolo in un gioco ancora più sporco.
I libri — quelli veri, anche indipendentemente dalla possibilità di diventare dei veri e propri “classici”, dettaglio evidentemente ben ulteriore al riconoscibile professionismo — nascono per essere letti e riletti senza perdere la loro attualità. Da questo punto di vista è evidente che la scrittura online non può e non potrà mai assurgere a tale ruolo, se non nella banale, per quanto utile, documentazione giornalistica.
Il web è di per sé troppo rapido, volatile e transeunte per riuscire a veicolare qualcosa di effettivamente stabile e statico, oltre che perennemente illuminante. Quindi tanto vale utilizzarlo come “tam tam letterario”, ovvero testimonianza di qualcosa che può accadere e in qualche misura ha senso documentare, fissare su carta elettronica in rete.
Personalmente sono anni luce lontano dalla logorroica penna elettronica di gente come Cory Doctorow. Non sarei mai, dico mai in grado di condividere con voi tutto quello che scrivo per me stesso. E d’altra parte, lasciando stare le pulsioni e i piaceri del “fare per il fare”, che è un po’ la riedizione dell’arte per l’arte, perché mai dovrei farlo?