Pensiero Visuale e Decadenza Editoriale

Il pensiero visuale ci permette di cogliere sfumature che hanno anche a che fare con la storia della cultura. Da questo punto di vista, un esempio che letteralmente mi ossessiona è quello legato a un testo romanzesco divenuto ormai un classico.

La prima edizione del libro Il Pendolo di Foucault è a mio avviso estremamente istruttiva, specie se letta visualmente in relazione alle altre copertine che sono state utilizzate, negli anni, per confezionare questa opera narrativa nelle sue successive edizioni.

Cosa vediamo in questa prima versione? Ciò che vediamo è un primo piano della Tout Eiffel, proposta in un’elaborazione grafica (o fotografica, la cosa non è chiara, ed è un bene sia così) molto diversa dalle raffigurazioni stile cartolina che di solito siamo abituati ad associare ai monumenti nazionali di così plateale valenza iconica. L’immagine è in negativo, fondo scuro blu notte, netto, vibrante, in piena contrapposizione con l’azzurro delle volte metalliche, contemplate da un punto di vista ravvicinato, per non dire adiacente. L’immagine è sintetica e misteriosa. Non racconta nulla. Si limita a fotografare una sensazione.

Ebbene, questa sensazione indotta è per quel che mi riguarda la più fedele al romanzo di tutte quelle che sono venute dopo, a riprova del fatto che — ecco la valenza culturale del pensiero visuale — l’editoria dei tempi seguenti è andata via via decadendo verso pose e atteggiamenti sempre più banali.

Ma andiamo con ordine. Perché questa immagine è così attinente alla narrazione? Senza fare particolari spoiler (cosa peraltro impossibile per un romanzo fiume come questo), basti dire che la raffigurazione ravvicinata della Tour Eiffel si riferisce esplicitamente a una scena. Riassumendo, un personaggio chiave, peraltro anche voce narrante in prima persona dell’intero romanzo, si trova a Parigi, nel pieno di un fuga da qualcuno che ha commesso qualcosa. L’atmosfera è febbrile, concitata, in quanto la mente del fuggitivo è letteralmente ricolma di simboli, teorie, congetture, che fanno capo a Parigi come centro nevralgico di una congiura secolare. Il mondo frenetico appare come rappresentazione di qualcosa che i più non riescono, ovvero non possono vedere e comprendere. Ecco quindi che l’apparizione improvvisa della torre metallica, sotto la quale avviene parte della fuga, suscita nel protagonista un cortocircuito mentale attraverso il quale comincia a intravedere un senso nel caos: il monumento è in realtà una gigantesca antenna, un mostro di viti e bulloni, in grado di cogliere le energie telluriche e di rispedirle altrove per colpire e distruggere, controllare la materia e il pensiero a distanza, imporre il predominio sul mondo per effetto di una vendetta radicata nella storia.

Siamo al cospetto, quindi, di una perfetta sintesi grafica, che in un secondo, a livello subliminale, illustra il romanzo nel suo cuore tematico.

Cosa accade nella versione economica del medesimo testo? L’immagine, intendiamoci, è ancora molto attinente alla narrazione, ma riporta un insieme di simbologie e mappe circolari — rosoni, mandala, tavole sefirotiche — che illustrano e restituiscono all’osservatore un unico termine e fenomenologia: l’esoterismo di ogni ordine, grado, latitudine ed epoca storica.

Immagine evocativa, intendiamoci, e certamente opportuna. Ma che sarebbe stata ugualmente adatta anche per accompagnare un testo effettivamente esoterico, di natura e funzione puramente saggistica o storica: una storia della magia, o un vero e proprio manuale del novello apprendista stregone moderno.

Siamo circa a un lustro dalla prima edizione, e già l’editoria italiana punta ad una grafica più diretta e autoreferenziale, con un tono esplicito che si mantiene sempre sull’estrema raffinatezza — quelle ruote occulte che affiorano dal buio, porgendo simbologie e viraggi di colore dal freddo al caldo, sono oggettivamente sublimi — ma certamente si lascia alle spalle l’intellettualismo sottile del passato. I tempi, insomma, stanno cambiando. lentamente ma inesorabilmente.

Arriviamo quindi all’ultima iconografia illustrativa, sfruttata sia dalle ultime edizioni note, sia da quella per così dire definitiva, approdata anche alla casa editrice voluta, tra gli altri, dallo stesso Umberto Eco, La Nave di Teseo.

Qui la banalità espositiva regna sovrana. Vediamo una semplice foto aerea di Parigi, con un gargoyle oscuro che osserva un punto imprecisato dell’orizzonte. Qualche “simpatico” schema esoterico buttato qua e là ammiccava al contenuto nelle passate edizioni Bompiani, ma nell’ultima anche queste aggiunte scompaiono; rimane una piatta foto in bianco e nero, anonima e contemporanea, molto più simile al post di un mediocre fotografo amatoriale che alla copertina di un capolavoro letterario della modernità.

Siamo in definitiva passati dalla sottigliezza dell’intelletto alle risate registrate, o se preferite agli applausi comandati da un deficiente che si sbraccia in uno studio televisivo.

La mia dissertazione finisce qui, visto che mi pare non ci sia molto da dire, se non rimarcare quanto la nostra acutezza visiva e intellettuale si sia negli anni dispersa nel nulla, provincializzata, ribassata in un mercato che ormai non ha più nulla da dire, e cerca di piazzare anche la grandezza del classico in modalità volgari o comunque non all’altezza dell’originale.

Lettura Contesto Spaziotempo Percezione

Più che comprare libri dovremmo comprare lo spaziotempo necessario per leggerli.

Ci penso sempre di più. L’ho detto, e lo ripeto: la questione è a monte, e non riguarda solo la prassi della cara vecchia lettura. Pure la contemplazione filmica, o musicale (e la contemplazione in genere), segue la stessa logica. A mancare è il tempo e la sua necessaria qualità minimale. Espressione che può anche estendersi allo spaziotempo. Ossia, manca ormai un quadro circostante atto ad accogliere il gesto.

Il tempo nudo e crudo è minacciato da interruzioni in potenza e in atto. Si tratta, cioè, di un tempo di bassa qualità. Possiamo avere a disposizione l’oggetto del desiderio, quale esso sia. Ma ci sfugge il contesto che ne accoglie la fruizione.

La falsa libertà abbonda; quella vera, che sarebbe bastata e avanzata anche in quantità molto esigue, manca invece completamente. Ne segue una sorta di distrazione basale che confonde ogni percezione. Ossia, abituarsi a considerare reali le risate registrate significa non capire più le battute che fanno ridere sul serio.

Due Ritagli di Nostalgia e Autunno

Il mio tumblelog, di cui ho parlato oggi in un articolo dedicato in altra isola blog, si sta rivelando un ottimo strumento di annotazione on the go. Oggi mi sono per esempio divertito ad appuntare sensazioni autunnali, sintetizzate da alcune immagini e brevi video.

Il problema è che le antiche librerie non esistono praticamente più. Sono diventate cartolerie (cosa di per sé buona) associate a empori del peggiore mainstream editoriale (cosa appunto cattiva). Ecco dunque i miei ritagli digitali intrisi di nostalgia…

C’è Fantasy e Fantasy

brown wooden signage on brown tree trunk

A volerla dire con una perifrasi, si potrebbe intendere la nostra epoca come tripudio di un atteggiamento di iper-semplificazione dicotomica che, a fronte di un’oggettiva esplosione della complessità di ogni ordine, grado e latitudine, propone come soluzione non già, come si dovrebbe, una serie di strumenti per abbassare il grado della complessità stessa, bensì una polarizzazione radicale e assolutamente acritica che si perde il classico bambino coi panni sporchi. In sostanza, oggi come oggi il pensiero unico vuole o tutto nero o tutto bianco.

Ecco dunque le cazzate di ogni giorno… Se sei contro Trump sei a favore della Harris. Se non ti convince la woke-culture sei fascista. Se sei contro un’adesione incondizionata al Partito Democratico sei un sostenitore delle destre populiste. Se metti in discussione il contante sei uno sporco comunista che vuole tassare tutto perché invidioso. E via discorrendo, lungo l’infinita gamma di — appunto — cazzate che contraddistinguono la versione di chi o ha un quoziente intellettivo troppo basso per ragionare su una realtà sfumata e a colori, oppure è più banalmente in malafede, e monetizza il caos attraverso meccanismi di varia natura.

Ho fatto questa premessa per parlare in realtà (anche se solo apparentemente) di tutt’altro: nello specifico, pensate un po’ quanto il volo sembri pindarico, della letteratura fantasy.

La ragione è legata all’aver da poco concluso la seconda stagione di una recente serie televisiva, Gli Anelli del Potere, derivata dal classico romanzo “di culto” Il Signore degli Anelli, a sua volta portato al cinema con la celeberrima trilogia di vent’anni fa, concludendo per quel che mi riguarda una sola cosa: a parte l’originale libresco, che non ho mai letto (fatemi causa), ma che di certo sarà un capolavoro (e vi assicuro che non ho alcun motivo “letterario o intellettuale” per dubitarne), l’intero corpus di opere cinematografiche fino ad oggi derivate dall’universo tolkieniano mi appare come la quintessenza della noia più assoluta.

Già i film di Peter Jackson non sono mai riuscito a digerirli. Lenti, lentissimi, immobili, con paesaggi banali, colori banali (verde acqua e muschio, terra, legno, pietra e cielo azzurro… fine della storia) diluiti in paesaggi senza alcun elemento di originalità. E poi quelle razze, esse stesse di una banalità e (diciamocelo chiaramente) bruttezza assoluta… Per non parlare della storia: una serie di anelli che (1) hanno poteri magici che da soli basterebbero a distruggere una galassia e (2) agiscono sulla mente e sul corpo del possessore solamente se quest’ultimo li tiene appiccicati a sé; ma ha senso tutto questo?

Insomma, veniamo al dunque. Oggi come oggi, riferendosi anche alla sola parola fantasy, nessuno, dico nessuno oserebbe fare un nome diverso da quello di Tolkien, riferendo l’intero genere alle sole sue elucubrazioni sul tema delle mitologie norrene e delle — ribadisco, e nessuno si senta offeso — noiosissime vicende di personaggi ora fastidiosamente bruttarelli, ora fastidiosamente bellocci, ora di una banalità disarmante. Mi viene da dire, se proprio vogliamo parlare di tradizioni, che era molto più originale il Medioevo italico tratteggiato in Brancaleone alle Crociate! Al più il “nostro” fantasy potrebbe spingersi ad altri successi al botteghino, tipo Harry Potter e vari suoi cloni.

A latere: Trovo interessante e istruttivo il fatto che un dark fantasy come il ciclo della Torre Nera di Stephen King non sia ancora stato tradotto in una saga filmica, se non per un (giustamente) dimenticato filmino (del tutto avulso dall’originale storia kinghiana) che di fatto conferma la regola: qui vogliamo solo fantasy a base di orchi e nani…

Tuttavia il fantasy è stato un genere incredibilmente fertile, e battuto da una miriade di autori che nulla avevano a che fare con le scolorite e pallide atmosfere wagneriane aventi a che fare con cavalieri puri di cuore e altre derivate arturiane, che nel dettato di Tolkien — o almeno, del Tolkien volgarizzato in immagini in movimento — assumono una valenza così totalizzante da assumere la caratterizzazione di un monoideismo quasi sconcertante, oltre che, appunto, inefficace e noioso. Cioè: una certa vocazione alla semplificazione e al sistematico oblio ha oggi come oggi letteralmente cancellato, censurato, occultato, fatto fuori e dimenticato autori che nella mia infanzia e adolescenza riempivano letteralmente i cataloghi di case editrici del calibro di Fanucci e Nord, per non parlare della stessa Mondadori.

L’edizione tascabile del 1991

Un esempio che mi piace citare è questo interessante romanzetto (di cui trovate alcune dettagliate informazioni in questo link), che si intitola Il Viaggio di Hiero, e che mi capitò tra le mani quando appunto fu ripubblicato da Fanucci — che lo aveva già fatto uscire nel 1976 — in una conturbante collana di fiammanti tascabili, nell’ormai lontanissimo 1991 (ero poco più che quindicenne). L’autore è un certo Sterling E. Lanier, nome ovviamente quasi sconosciuto, esattamente come restano praticamente sconosciuti tantissimi altri autori, come ovvio quasi tutti statunitensi, che però ebbero modo di giungere fino a noi in Italia durante tutti gli anni Settanta e Ottanta, fino appunto a quasi un decennio dopo.

Alcuni di loro — cioè degli appartenenti a questa sorta di grande cenacolo yankee della letteratura di genere fiorita nel secondo dopoguerra — sono ricordati ancora oggi, come, che so, un Philip Josè Farmer o un Fritz Leiber, ma tantissimi altri sono annoverabili nel grande oceano delle meteore. Eppure l’interezza della loro opera ha costituito l’ossatura di un fantasy veramente originale, diverso, colorato, esuberante e intellettualmente vivace.

Tornando al romanzo di cui sopra, non starò logicamente a raccontarvi la trama, anche perché in tutta sincerità la ricordo solo per sommi capi. Basti dire però che il viaggio del titolo si inoltrava in uno scenario da “dopo catastrofe”, dove tra animali mutati e senzienti, telepatie, foreste pluviali e incontri stranianti, il protagonista giungeva a recuperare un oggetto risalente a quella che per lui era la preistoria: sto parlando di un computer!

Insomma, con questo esempio del tutto banale mi premeva farvi capire come questi ultimi trent’anni siano sostanzialmente passati a dimenticare tutto, e a semplificare fino all’inverosimile quel poco che rimaneva: il gusto, la letteratura, il cinema, la politica, il pensiero, le idee… Tutto… Anche l’immaginario ne risulta sconvolto, ovvero semplificato in dicotomie, oltre che disarmanti, anche false (basti pensare a termini ormai svuotati di ogni senso sia filosofico che storico, come Destra e Sinistra, ridotti a slogan da analfabeti funzionali).

Scribacchiando e Ideando

Innanzitutto bisogna capire che non siamo nessuno. Essendo tanti “nessuno”, la sola cosa che possiamo raggiungere è un avanzamento del nostro essere al cospetto di noi stessi. Solo dopo questo avanzamento potremo diventare qualcuno.

Filippo Albertin

Il disegno di ieri, conservato nel mio ormai proverbiale logbook cartaceo.

Perseverare, perseverare, e ancora: perseverare…

Nuove Poesie Elettroniche

Ho iniziato a scrivere in questa modalità. Mi piace molto. Ha senso. La morfologia alla quale sono andato convergendo, “semi-punteggiata”, restituisce un senso di ordine e scansione logica che mi somiglia. Ovvero, che mi somiglia in queste specifiche composizioni.

https://social.vivaldi.net/@palmbeach_1/112916643377402483
https://social.vivaldi.net/@palmbeach_1/112916476058301173
https://social.vivaldi.net/@palmbeach_1/112916437440214329
https://social.vivaldi.net/@palmbeach_1/112916368568657175

Più una sorta di senza titolo che avvia questo nuovo stile e forma…

https://social.vivaldi.net/@palmbeach_1/112914815030767502

Alienazione Letteraria (poesia)

Affollato il tempo che ti impedisce di scrivere,
ovvero che ti ingabbia nell'assenza di senso
e nell'obbligo di porselo come unico utopico desiderio.
Affollato e dunque a somma zero, spalla a spalla
la tua silenziosa rabbia.

L'odiosa copertina di un Feltrinelli attuale,
che propone pure il Sanguineti fino al 1981,
ossia, verbo pregevole, nato in pregevole Repubblica,
ebbene, pure questo conato culturale arriva a disgustarmi.
Letture rese aliene dall'alienazione.

Poesie Musicassette e Gemellaggi

Solo per Me — Una poesia di questa mattina. Ho ripreso a scrivere poesie seguendo una sorta di implicito consiglio di Ray Bradbury. Il consiglio lo trovate nel libro Zen in the Art of Writing. Lo trovate, cioè, se lo cercate. Non è un libro particolarmente didascalico, anzi. Ma direi che è proprio questo il suo valore…

Austin Kleon musicassette — Peraltro, trovo interessante che Sherlock Holmes sia proprio in questa sua playlist. Mi piace l’idea. Da bambino ne facevo peraltro parecchie di musicassette personalizzate. Era un lavoro piuttosto istruttivo sul piano della creatività. Il digitale spinto ha rettificato di molto la nostra capacità manuale di fondere le cose per creare novità.

Burle e somiglianze musicali — Quella delle “somiglianze musicali”, per ogni musicista, è una sorta di ossessione. Il pop è pieno zeppo di somiglianze, ora volute, ora non volute, oppure anche subliminali: canzoni che scivolano in altre o sembrano essere fatte apposta per un mashup, ritornelli presi di peso, ispirazioni da schemi antichi o antichissimi, e via discorrendo. Tempo fa ho inserito questa cosa pure in un corso di songwriting tenuto a Vicenza, che ha goduto peraltro di un notevole successo. Detto questo, ascoltiamo di fila Giulio Cesare e Every Little Thing She Does Is Magic.

Solo per Me (poem)

Solo per Me
di Filippo Albertin

Bradbury insiste con la poesia.
Io insisto nell'approfondire i testi di oscure band
che sembrano avere in USA cinquant'anni di carriera
(mi riferisco agli Sparks,
e alla loro Sherlock Hokmes, che trovo stupenda
e che ho pure tradotto).
Bradbury scriveva a macchina
nei sotterranei delle biblioteche,
a 10 centesimi di dollaro per ogni mezz'ora.
Io mi sono deciso di scrivere
ai fosfori verdi,
perché mi ricorda l'infanzia.
Merlino mi salta sulla spalla
per raggiungere miagolando il letto
con un balzo ulteriore,
uno dei tanti della sua collezione.
Così come lui colleziona salti e capriole
io colleziono impressioni, tentativi di memorie,
ovvero prove di distillazione di un certo liquore
che possa essermi utile dopo decenni di oblìo.
Leggo Bradbury, mi immergo in quel poco di illuminante
(e vi assicuro che è già tanto e forse troppo)
che posso trarre dalla sua esistenza di scrittore.
Ascolto una vecchia canzone degli Sparks
che esattamente come per Twin Peaks
all'epoca non avevo mai ascoltato,
e già questa mi sembra antica,
come la poesia che ora scrivo solo per me.

Vicenza, 24 marzo 2024