Il film di ieri sera: Dune – Parte Due, degnissima continuazione del già bellissimo primo episodio visto qualche tempo fa.
Considerazioni su letteratura di genere e cinema. Di fatto, Il Signore degli Anelli è il grande “parallelo” che viene in mente pensando a questo. Con la differenza che se l’ormai storicizzata trasposizione della grande opera di Tolkien proprio non mi è piaciuta, questo Denis Villeneuve ha invece diretto (microbici dettagli a parte) un capolavoro, o come minimo un film troppo diverso e superiore rispetto ai suoi presunti simili per non essere identificato in un netto, sconcertante salto di qualità.
Il film è appunto profondamente letterario, in grado di veicolare non dico in scala uno a uno, ma con estrema fedeltà, la natura iconica e simbolica di questa grande pietra miliare della letteratura di genere. Per una volta non abbiamo la solita azione, i soliti combattimenti cuciti insieme dalla retorica a base di grafica computerizzata e ruoli stereotipati. Dentro questa scatola percettiva ci sono intuizioni, respiri, domande, scenari che rispondono a precise indicazioni ben oltre l’estetica e giungono a intercettare autentiche architetture intellettuali.
Non siamo logicamente ai livelli psichedelici (almeno sulla carta) della “pellicola mancata” di Jodorowsky, ma di certo Villeneuve quei materiali li ha letti e approfonditi più volte.
Più che comprare libri dovremmo comprare lo spaziotempo necessario per leggerli.
Ci penso sempre di più. L’ho detto, e lo ripeto: la questione è a monte, e non riguarda solo la prassi della cara vecchia lettura. Pure la contemplazione filmica, o musicale (e la contemplazione in genere), segue la stessa logica. A mancare è il tempo e la sua necessaria qualità minimale. Espressione che può anche estendersi allo spaziotempo. Ossia, manca ormai un quadro circostante atto ad accogliere il gesto.
Il tempo nudo e crudo è minacciato da interruzioni in potenza e in atto. Si tratta, cioè, di un tempo di bassa qualità. Possiamo avere a disposizione l’oggetto del desiderio, quale esso sia. Ma ci sfugge il contesto che ne accoglie la fruizione.
La falsa libertà abbonda; quella vera, che sarebbe bastata e avanzata anche in quantità molto esigue, manca invece completamente. Ne segue una sorta di distrazione basale che confonde ogni percezione. Ossia, abituarsi a considerare reali le risate registrate significa non capire più le battute che fanno ridere sul serio.
Tra ieri e oggi ho provato — ovvero, riprovato, a distanza comunque di anni — lo sciroppo d’acero. Ha un gusto aromatico che non ricordavo, legnoso, leggermente vanigliato ma con un sentore erbaceo. Molto canadese (non so perché l’ho detto). Ottimo nel caffè lungo. Meno nelle tisane.
A volerla dire con una perifrasi, si potrebbe intendere la nostra epoca come tripudio di un atteggiamento di iper-semplificazione dicotomica che, a fronte di un’oggettiva esplosione della complessità di ogni ordine, grado e latitudine, propone come soluzione non già, come si dovrebbe, una serie di strumenti per abbassare il grado della complessità stessa, bensì una polarizzazione radicale e assolutamente acritica che si perde il classico bambino coi panni sporchi. In sostanza, oggi come oggi il pensiero unico vuole o tutto nero o tutto bianco.
Ecco dunque le cazzate di ogni giorno… Se sei contro Trump sei a favore della Harris. Se non ti convince la woke-culture sei fascista. Se sei contro un’adesione incondizionata al Partito Democratico sei un sostenitore delle destre populiste. Se metti in discussione il contante sei uno sporco comunista che vuole tassare tutto perché invidioso. E via discorrendo, lungo l’infinita gamma di — appunto — cazzate che contraddistinguono la versione di chi o ha un quoziente intellettivo troppo basso per ragionare su una realtà sfumata e a colori, oppure è più banalmente in malafede, e monetizza il caos attraverso meccanismi di varia natura.
Ho fatto questa premessa per parlare in realtà (anche se solo apparentemente) di tutt’altro: nello specifico, pensate un po’ quanto il volo sembri pindarico, della letteratura fantasy.
La ragione è legata all’aver da poco concluso la seconda stagione di una recente serie televisiva, Gli Anelli del Potere, derivata dal classico romanzo “di culto” Il Signore degli Anelli, a sua volta portato al cinema con la celeberrima trilogia di vent’anni fa, concludendo per quel che mi riguarda una sola cosa: a parte l’originale libresco, che non ho mai letto (fatemi causa), ma che di certo sarà un capolavoro (e vi assicuro che non ho alcun motivo “letterario o intellettuale” per dubitarne), l’intero corpus di opere cinematografiche fino ad oggi derivate dall’universo tolkieniano mi appare come la quintessenza della noia più assoluta.
Già i film di Peter Jackson non sono mai riuscito a digerirli. Lenti, lentissimi, immobili, con paesaggi banali, colori banali (verde acqua e muschio, terra, legno, pietra e cielo azzurro… fine della storia) diluiti in paesaggi senza alcun elemento di originalità. E poi quelle razze, esse stesse di una banalità e (diciamocelo chiaramente) bruttezza assoluta… Per non parlare della storia: una serie di anelli che (1) hanno poteri magici che da soli basterebbero a distruggere una galassia e (2) agiscono sulla mente e sul corpo del possessore solamente se quest’ultimo li tiene appiccicati a sé; ma ha senso tutto questo?
Insomma, veniamo al dunque. Oggi come oggi, riferendosi anche alla sola parola fantasy, nessuno, dico nessuno oserebbe fare un nome diverso da quello di Tolkien, riferendo l’intero genere alle sole sue elucubrazioni sul tema delle mitologie norrene e delle — ribadisco, e nessuno si senta offeso — noiosissime vicende di personaggi ora fastidiosamente bruttarelli, ora fastidiosamente bellocci, ora di una banalità disarmante. Mi viene da dire, se proprio vogliamo parlare di tradizioni, che era molto più originale il Medioevo italico tratteggiato in Brancaleone alle Crociate! Al più il “nostro” fantasy potrebbe spingersi ad altri successi al botteghino, tipo Harry Potter e vari suoi cloni.
A latere: Trovo interessante e istruttivo il fatto che un dark fantasy come il ciclo della Torre Nera di Stephen King non sia ancora stato tradotto in una saga filmica, se non per un (giustamente) dimenticato filmino (del tutto avulso dall’originale storia kinghiana) che di fatto conferma la regola: qui vogliamo solo fantasy a base di orchi e nani…
Tuttavia il fantasy è stato un genere incredibilmente fertile, e battuto da una miriade di autori che nulla avevano a che fare con le scolorite e pallide atmosfere wagneriane aventi a che fare con cavalieri puri di cuore e altre derivate arturiane, che nel dettato di Tolkien — o almeno, del Tolkien volgarizzato in immagini in movimento — assumono una valenza così totalizzante da assumere la caratterizzazione di un monoideismo quasi sconcertante, oltre che, appunto, inefficace e noioso. Cioè: una certa vocazione alla semplificazione e al sistematico oblio ha oggi come oggi letteralmente cancellato, censurato, occultato, fatto fuori e dimenticato autori che nella mia infanzia e adolescenza riempivano letteralmente i cataloghi di case editrici del calibro di Fanucci e Nord, per non parlare della stessa Mondadori.
L’edizione tascabile del 1991
Un esempio che mi piace citare è questo interessante romanzetto (di cui trovate alcune dettagliate informazioni in questo link), che si intitola Il Viaggio di Hiero, e che mi capitò tra le mani quando appunto fu ripubblicato da Fanucci — che lo aveva già fatto uscire nel 1976 — in una conturbante collana di fiammanti tascabili, nell’ormai lontanissimo 1991 (ero poco più che quindicenne). L’autore è un certo Sterling E. Lanier, nome ovviamente quasi sconosciuto, esattamente come restano praticamente sconosciuti tantissimi altri autori, come ovvio quasi tutti statunitensi, che però ebbero modo di giungere fino a noi in Italia durante tutti gli anni Settanta e Ottanta, fino appunto a quasi un decennio dopo.
Alcuni di loro — cioè degli appartenenti a questa sorta di grande cenacolo yankee della letteratura di genere fiorita nel secondo dopoguerra — sono ricordati ancora oggi, come, che so, un Philip Josè Farmer o un Fritz Leiber, ma tantissimi altri sono annoverabili nel grande oceano delle meteore. Eppure l’interezza della loro opera ha costituito l’ossatura di un fantasy veramente originale, diverso, colorato, esuberante e intellettualmente vivace.
Tornando al romanzo di cui sopra, non starò logicamente a raccontarvi la trama, anche perché in tutta sincerità la ricordo solo per sommi capi. Basti dire però che il viaggio del titolo si inoltrava in uno scenario da “dopo catastrofe”, dove tra animali mutati e senzienti, telepatie, foreste pluviali e incontri stranianti, il protagonista giungeva a recuperare un oggetto risalente a quella che per lui era la preistoria: sto parlando di un computer!
Insomma, con questo esempio del tutto banale mi premeva farvi capire come questi ultimi trent’anni siano sostanzialmente passati a dimenticare tutto, e a semplificare fino all’inverosimile quel poco che rimaneva: il gusto, la letteratura, il cinema, la politica, il pensiero, le idee… Tutto… Anche l’immaginario ne risulta sconvolto, ovvero semplificato in dicotomie, oltre che disarmanti, anche false (basti pensare a termini ormai svuotati di ogni senso sia filosofico che storico, come Destra e Sinistra, ridotti a slogan da analfabeti funzionali).
Ho ripreso a guardare vecchi film degli anni che vanno dai Quaranta ai Settanta, sia esteri che italiani, grazie alla sempre aurea intercessione di Youtube. Ritrovo in queste produzioni una ritmica radicalmente diversa da quelle attuali, e un retrogusto che necessariamente riporta anche me indietro nel tempo.
Tra uno Sherlock Holmes d’annata (Basil Rathbone, ovvero quando un attore diventa icona letteraria) e un nostrano Mastroianni “di genere”, ricostruisco una sorta di vocabolario perduto, o semplicemente dimenticato nelle nebbie del tempo.
Di tutto questo farò qualcosa. Non so cosa, ma qualcosa…
In questo articolo ho preso ad esempio il “caso” del finale del film Il Ritorno dello Jedi (1983) per parlare di corruzione. Sulla cosa ho riflettuto parecchio, e, imbattendomi in quest’altro articolo del Blog di Beppe Grillo, debbo dire che c’è una forte vicinanza tra i due concetti: corruzione e distruzione della memoria. L’articolo in questione parla di un romanzo che appunto rende la metafora attraverso la storia di un’isola dove gli abitanti, dimenticando, di fatto fanno sparire non solo la memoria, ma anche le cose. Cito direttamente le conclusioni:
L’idea del libro si presta ad una esatta analogia con il nostro presente. Oggi, le cose scompaiono incessantemente senza che neppure ce ne rendiamo conto. E scompaiono i ricordi, scompare la memoria, per la quale ci distinguiamo dagli animali. La proliferazione di oggetti ci illude, simulando un’abbondanza che non esiste. Ed è la nostra immersione nell’era della comunicazione e dell’informazione a far svanire le cose. Le informazioni, considerate “non-cose”, si ergono davanti agli oggetti, facendoli gradualmente svanire. Viviamo in un mondo in cui il predominio dell’informazione viene scambiato per libertà.
Mi trovo evidentemente molto in linea con questa descrizione, e a riprova di questo non posso fare a meno di citare l’esperienza diretta.
Io sono nato nella perfetta metà degli anni Settanta. La televisione del servizio pubblico che ho conosciuto da bambino e da adolescente — per intenderci, fino agli anni di Tangentopoli — era qualcosa di radicalmente diverso rispetto a quella attuale. Questo non significa assolutamente che non ci fosse pubblicità. Anzi, la pubblicità era onnipresente pure allora. Eppure accadeva qualcosa che ormai da anni non riscontro più.
I contenuti sia narrativi e cinematografici che documentaristici proposti nella RAI dell’epoca coprivano tranquillamente non solo il presente, ma anche il passato prossimo e remoto della produzione mondiale. In altre parole, noi ragazzini potevamo guardare tanto un film della citata serie classica di Guerre Stellari quanto uno di Stanley Kubrick, passando per le comiche di Stanlio e Ollio e arrivando ai classici di Alfred Hitchcock. La RAI dell’epoca per molti anni trasmise per esempio molti film dal vero prodotti dalla Walt Disney lungo tutto il secondo dopoguerra, nonché versioni restaurate dei mystery americani anni Trenta, per non parlare logicamente delle pellicole di Totò e della commedia all’italiana degli anni Sessanta. Oltre a questo abbondavano ovviamente gli sceneggiati del passato e del presente, le produzioni di genere fantastico, il tutto cacciato a forza in un poliedrico calderone che come ovvio annoverava anche i varietà — che all’epoca venivano firmati da autentici geni, come Enzo Trapani — e le tribune politiche (quando la politica esisteva e veniva fatta dai politici, non dalle veline), i programmi di pubblica utilità e quelli espressamente dedicati ai giovani e giovanissimi.
In altre parole, quella era una televisione che faceva servizio pubblico attraverso una fedele conservazione e riproposizione della memoria.
Ciò che accade oggi è l’esatto contrario, e avviene sulla base di due dinamiche compresenti e speculari: da un lato la vera e propria censura della memoria, che si traduce in una sua effettiva assenza dai palinsesti; dall’altro lato la manipolazione della parte puramente “nominale” della memoria, per proporre intollerabili semplificazioni, deformazioni e usi impropri della stessa.
Riassumendo, la nostra storia o e taciuta, o e raccontata in modo sommario, per non dire falsificante. Non mi stupisce dunque il dilagante revisionismo, la presenza di cariche pubbliche che disertano le feste della Repubblica, per non parlare della decadenza ormai decennale del nostro paese e del suo sistema economico, culturale e istituzionale.
Da tempo volevo scrivere questo post. A frenarmi la percezione di un argomento che mi avrebbe portato lontano, forse troppo, in una trattazione generale delle cose che a mio avviso in questi anni sono andate storte sul piano dell’arte e dell’estetica. Nello specifico, il punto di partenza è una complessiva disamina, nonché aspra critica, di uno dei fenomeni cinematografici certamente più longevi della storia del cinema.
Sto parlando di Guerre Stellari, ovvero di quella saga ideata e portata sul grande schermo da George Lucas.
Ma andiamo con ordine, e poniamo sul piatto tutte le premesse del caso, che sono varie e fondamentali per comprendere il mio giudizio — badate bene — sull’intera operazione cinematografica, ovvero narrativa.
Tanto per capirci, io sono nato nel 1975. Per ragioni puramente anagrafiche, quindi, la mia infanza è stata intimamente caratterizzata dall’influsso culturale ed estetico della “trilogia classica” lucasiana.
Il primo film della “serie”, intitolato semplicemente Star Wars, esce nel 1977, e da subito ottiene un incredibile — e meritatissimo — successo su scala planetaria. Il film lo conoscete spero tutti. Parla di un impero galattico crudele e spietato, di una resistenza formata da ribelli, di una mitica confraternita di cavalieri votati alle forze del bene, di un cavaliere perduto nel “lato oscuro” e passato alle forze imperiali, nonché di intrecci famigliari, rapporti tra allievi e maestri, contrabbandieri dal buon cuore e appunto battaglie stellari in un’ambientazione che fonde il fantasy alla fantascienza.
Gli elementi costitutivi dell’estetica di Star Wars sono molto particolari, e di fatto pescano da riferimenti culturali che vanno da Il Signore degli Anelli di Tolkien al Dune di Frank Herbert. Più precisamente, in riferimento a questo secondo titolo letterario, per moltissimi versi questa prima trilogia corrisponde al “vero” Dune in senso cinematografico, ossia di una storia fatta di redenzione e di evoluzione ambientata in un futuro lontanissimo, con echi di un passato che ricorda molto il Medioevo. A tale proposito, da notare che il testo di Herbert, proprio alla fine degli anni Settanta, si sarebbe dovuto tramutare in una colossale opera cinematografica a firma Alejandro Jodorowsky, progetto non andato in porto in quanto eccessivo da tutti i punti di vista.
Insomma: Star Wars si poneva oggettivamente, nel qui ed ora del 1977, come risposta cinematografica reale a tutti i fermenti culturali e intellettuali dell’epoca, ivi compresa l’elucubrazione “lisergica” di Jodorowsky, nutrita da suggestioni tra arte, fumetto e metafore (basti pensare alla guerra fredda e all’auspicio di un disgelo tra blocchi geopolitici).
A cavallo tra 1977 e 1983 vanno dunque in onda i tre capitoli di quella che per svariati anni è stata la saga completa di Guerre Stellari; ovvero, dopo il primo omonimo capitolo, la prosecuzione della storia con L’Impero Compisce Ancora e Il Ritorno dello Jedi.
La storia conclusasi con l’ultimo capitolo è perfetta, compiuta, simmetrica, e chiude l’intera vicenda con una riconciliazione e un generale senso di perdono e redenzione: il cattivo Dark Vader, cavaliere jedi sedotto dalla parte oscura della Forza, si riconcilia col figlio, e torna ad essere, in forma di pura energia, l’originario Anakin Skywalker.
Ebbene, a distanza di vent’anni, George Lucas decide — diciamocelo ben chiaramente e senza giri di parole — che è venuto il momento di fare un po’ di soldi con la storia che lo ha reso celebre, e certamente lo ha fatto vivere di rendita fino a quel momento. Si inventa dunque — e si inventa di sana pianta, visto che tutte le storielle sulla presenza di un piano dell’opera già in origine più vasto io proprio non me le bevo — l’idea non già di un sequel, come di solito avviene nel cinema (anche con esiti discretamente buoni, come per Indiana Jones), ma di un prequel, che analizzi quanto accaduto prima degli eventi narrati nella trilogia classica.
Dal 2002 vengono quindi prodotti altri tre capitoli, che, narrando le vicende pregresse e non successive, compiono secondo me uno scempio assolutamente visibile e intollerabile, con l’aggravante di non riguardare solo i nuovi episodi, ma pure i vecchi, che vengono non già restaurati, ma rieditati e volgarmente manipolati in un’operazione retroattiva volta a violentarli e a trasformarli in “pezzi” di una nuova saga.
Una prima lacerante contraddizione estetica è data dal pesante uso di grafica digitale, la quale caratterizza scenari e personaggi che non hanno praticamente nulla a che fare con la cinematografia a cavallo tra Settanta e Ottanta, di per sé calda, “pesante” e paradossalmente più credibile.
Yoda nella versione del 1981
Prendiamo per esempio Yoda, il gran maestro jedi che a sorpresa compare del secondo e nel terzo capitolo classico. Si tratta di un vero e proprio muppet, un esserino comico, ammiccante, strano, non per niente animato “a mano” proprio dal leggendario Frank Oz. La sua resa estetica è un tutt’uno con i primi anni Ottanta, ed è esattamente questo il messaggio visivo che trasuda dalla vecchia pellicola: il tuo maestro spirituale non è un eroe muscoloso e temerario, ma un mostriciattolo ridicolo, bambinesco e apparentemente fragile.
Ora, la versione temporalmente precedente, ma cinematograficamente successiva di questo importantissimo personaggio propone una sua caratterizzazione radicalmente diversa, fredda, senza peso, artificiale e chiaramente scolpita a colpi di grafica tridimensionale computerizzata. L’effetto è straniante. Come può essere questo lo Yoda che ho conosciuto a suo tempo? E la risposta è semplice: questo non è quello Yoda, ma lo Yoda che abbiamo manipolato e falsificato per costruire una saga di sei episodi che saranno venduti come pacchetto unico alle nuove generazioni.
Uno Yoda guerriero, impavido, rigorosamente artificiale
Non si tratta ovviamente solo di Yoda. Tutti i film della “trilogia prequel” porgono un’estetica moderna, ridondante, completamente priva delle linee e dei cromatismi tipicamente seventies che abbiamo conosciuto da ragazzini, e appaiono tanto più falsi quanto più questa adulterazione viene compiuta in riferimento a un tempo precedente, e non successivo rispetto alla storia. Ecco dunque il senato galattico, sorta di alveare che sembra uscito da un tutorial di rendering 3D, astronavi che sfrecciano nell’etere del tutto identiche a quelle che compaiono in centinaia di film “moderni”, scenari epici che ormai non comunicano più nulla nella loro automazione geometrica (lontana anni luce dalle grafiche dei grandi illustratori della fantascienza, si pensi a Karel Thole), per non parlare della totale assurdità estetica — carica di effetti barocchi, geometrie contemporanee, eccessi cromatici e formali — che si incontra nella costumistica e nel trucco, con personaggi che mentalmente non riusciamo assolutamente a collocare in un “prima” che non riusciamo a decifrare e giustificare, e che di conseguenza ci suona fasullo.
Insomma, per concludere, l’operazione “Star Wars prequel 2000s” è stata chiaramente dettata non già da urgenze artistiche, ma dalla banale volontà di alimentare un nutrito fandom a base di personaggi e comparse, mostriciattoli tridimensionali fatti con uno schiocco di dita, un “universo espanso” che sarebbe tornato utile in qualsiasi momento, e mille occasione di compravendita gadget, videogame e chi più ne ha più ne metta.
Ma non è finita qui. La volontà di violentare il giusto passato per renderlo coerente con l’ingiusto futuro raggiunge il suo apice di menefreghismo quando ci rendiamo conto che gli stessi film della trilogia classica sono stati manipolati, ora in modo subdolo e subliminale, ora con intollerabile spudoratezza. Il finale del terzo film (1983), infatti, introduce la figura spirituale di un Anakin Skywalker giovane, che nulla ha a che fare con l’attore che lo interpretava nella celeberrima scena della scoperta della paternità da parte di Luke Skywalker. Oltre al danno di non avere più questo storico finale, gli estimatori si sono visti pure sottratta l’iconica canzone che concludeva la saga storica.
Diamo uno sguardo alla versione originaria…
E confrontiamola con quella, retorica e vuota, della seconda versione. Notiamo appunto la sostituzione dell’attore, una musichetta che censura radicalmente il jingle (Yub Nub) che — ve lo assicuro — negli 80s girava anche in radio, e integra delle scene assolutamente artificiali e decontestualizzate stile ultimo dell’anno.
La prova provata di quanto affermo non è solo in quanto descritto, ma anche in ciò che è accaduto dopo, ulteriore tassello di questo quadro desolante. Nel 2015 prende avvio un’ennesima trilogia, questa volta sequel, prodotta dalla Disney, che nel frattempo aveva direttamente acquistato tutto il pacchetto della LucasFilm Ltd. Questa trilogia non fa altro che mettere in scena qualche anziano attore icona della serie classica, cucendo a fatica una storia non richiesta, forzata, con personaggi del tutto stereotipati che prendono il posto di quelli storici senza alcuna motivazione forte: bambocci viziati che non si sa perché cedono al lato oscuro, ragazze della porta accanto che non si sa perché detengono un potere stile Harry Potter, vecchi cavalieri jedi che non si sa perché si sono ritirati a vita privata e non si sa perché vengono poi convinti a tornare all’opera, non si sa perché. Il tutto in una salsa da puro videogame ed esercizio di stile che di Star Wars e della sua filosofia originale e originaria non ha ovviamente più nulla.
Il fatto che quest’ultima trovata commerciale sia da dimenticare è evidente dalle decine e decine di recensioni YouTube che potete tranquillamente trovare in rete, e che affermano e motivano questo giudizio molto meglio e con più dovizia di particolari di quanto possa fare io.
Ma il punto generale è un altro, e riguarda non solo il portafoglio del furbo Lucas, ma l’intero comparto della produzione cinematografica ormai da anni a questa parte.
Conclusioni
Che un film sia fatto per guadagnare, non ci sono dubbi, e sono l’ultimo a pensare che un’opera d’arte non debba essere foriera di meritato denaro da devolvere a chi l’ha prodotta e spero anche a chi l’ha concepita. Ma attenzione. Un film non è solo un espediente per guadagnare soldi. Un film, un qualsiasi film, a maggior ragione un capolavoro, o comunque una pellicola significativa, è anche un pezzo di storia, un tassello della memoria collettiva che ci ricorda a distanza di tempo anche il mondo in cui è venuto alla luce.
Cosa diremmo se gli storici film western di Sergio Leone venissero doppiati con altre voci, o privati delle colonne sonore originali di Ennio Morricone, o corretti con tecniche di grafica digitale per cambiare determinati messaggi o intere scene? Chiaramente ci sentiremmo violentati, esattamente come mi sentirei violentato se andassi a comprare un album storico di Fabrizio De Andrè e ci trovassi dentro canzoni con un arrangiamento completamente stravolto.
Il caso plateale delle trilogie prequel e sequel di Star Wars rappresenta a mio avviso la metafora più eloquente di come agisce la corruzione. Fanno passare qualcosa in modo leggero e subdolo. Poi, una volta che il cambiamento è metabolizzato dal pubblico, lo rendono ancora più aspro, per vedere l’effetto e quindi decidere se continuare o fermarsi momentaneamente. Se il pubblico, come la classica rana bollita, si sente a suo agio nella pentola in cui l’acqua comincia a salire di temperatura, ecco che interviene un ulteriore aumento, fino a che la rana non viene definitivamente cotta.
Se ci pensiamo, la stessa dinamica sta intervenendo nella politica, nei valori, nell’estetica, nello smantellamento di diritti che fino a tre o quattro decenni fa erano la base del vivere civile. Abbiamo perfetti incompetenti che ci governano, ma non ce ne accorgiamo più; anzi ci sembra che tale incompetenza li renda più simpatici, più simili a noi. Ecco dunque la corruzione al potere (che all’epoca di Tangentopoli determinava una reazione a catena in grado di disintegrare intere classi partitiche, e che oggi non viene minimamente considerata, tali e tante sono le sue ormai dilaganti manifestazioni), la corruzione estetica e intellettuale (film tutti uguali, immagini generate dall’intelligenza artificiale tutte uguali, etc…), la corruzione come inesorabile declino della memoria per rendere la plebaglia votante una variabile completamente sotto il controllo di pochi furbi nelle stanze dei bottoni.
Ecco. A me questa cosa ovviamente non piace, e spero di vedere più film restaurati che film violentati e manipolati nel nome di un puro guadagno, che, diciamocelo chiaramente, potrebbe essere perseguito anche senza offendere il passato e la sacrosanta facoltà di riviverlo in senso critico e costruttivo.
La tesi che voglio suffragare in questa mia disamina è legata a un fatto oggettivo in quanto platealmente ammesso dallo stesso David Lynch. La svolta prepotentemente soprannaturale avvenuta attorno alla metà della seconda stagione di questa acclamata serie televisiva altro non fu che una ripicca del regista verso le decisioni della produzione, che imponeva di rivelare immediatamente il colpevole. Questa decisione indusse il regista a inventarsi di sana pianta la figura di BOB, entità soprannaturale impersonata peraltro non già da un attore professionista, ma da un banalissimo inserviente a disposizione, a riprova della natura più che rocambolesca della faccenda, che avrebbe in qualche modo giustificato l’azione delittuosa di un padre la cui libidinosa e ignobile violenza era solo dettata da una possessione.
Ma a volte le soluzioni appaiono ben peggiori dei problemi che dovrebbero risolvere, ed esattamente questo è il caso di Twin Peaks, che dalla svolta in poi diventa una sorta di claudicante giocattolo nelle mani di un Lynch sempre più in difficoltà nel reggere l’intero impianto della trama. Con aporie che non si contano: personaggi che animano storielle parallele del tutto autoreferenziali, oppure che appaiono e scompaiono senza nulla portare allo svolgimento della storia; isterie collettive che alludono a forze misteriose la cui logica di funzionamento, per quanto soprannaturale, rimane del tutto oscura; e infine un cambiamento radicale di stile, che dal sublime contrasto tra natura incontaminata e kitsch da soap opera passa a una morbosità grottesca a base di tende rosse, geometrie vagamente massoniche, con nani e giganti sparsi qua e là.
L’idea originaria era evidentemente del tutto diversa, e numerosi sono gli indizi di tale radicale diversità.
Cosa sono le “Vette Gemelle” che danno appunto il nome alla cittadina? Sono due montagne, che chiaramente rappresentano la metafora del dualismo: da un lato la montagna come simbolo di solidità, robustezza, natura incontaminata, riparo, protezione; dall’altro lato la montagna che incombe, che oscura, che occulta e nasconde alla vista, ovvero la montagna dei boschi, dei rituali, della violenza atavica.
Il progetto originario della serie si imperniava appunto su questo: rappresentare, attraverso l’elemento catalizzatore di una bellissima ragazza vittima di un brutale killer, la doppia faccia di una cittadina, ovvero il suo versante oscuro e inconfessabile progressivamente messo in luce dall’indagine investigativa di un personaggio esterno, l’agente speciale Dale Cooper. Laura Palmer doveva quindi da subito essere, e in effetti per molte puntate lo è stata incondizionatamente, lo scandaglio non presente in scena, l’entità aleggiante, il mistero di una doppia vita che la parte luminosa e amichevole della città non vuole ammettere. Ecco dunque la chiarissima dicotomia, che guarda caso appare con eloquenza sconcertante anche solo nei celeberrimi titoli di testa: un uccellino colto nella natura incontaminata di un bosco, a illustrare la pace atavica dello stato pimordiale, e subito dopo le immagini della segheria della città, segno chiarissimo dello sfruttamento, del lucro, del potere, e poi ancora il contrasto tra l’albergo e l’immensa cascata… Siamo di fronte a una tesi molto lineare: dietro questa facciata idilliaca si celano segreti, e questi segreti sono riassunti nell’ambigua esistenza di una giovane donna chiamata Laura Palmer.
Se è vero che il tema del doppio è stato successivamente ripreso e trattato da Lynch specialmente nella fantomatica terza serie del 2017, è anche vero che tale tema risultava ormai definitivamente contaminato dalla svolta soprannaturale risalente all’avvento del catastrofico demone BOB, e dei voli pindarici ad esso conseguenti: l’inutile e fastidiosa loggia nera, i gufi, la frase “fuoco cammina con me” (che chiaramente alludeva alla passionalità e al desiderio che la Palmer suscitava in giovani e adulti del luogo, e non certo a chissà che metafora occulta), i simboli ritrovati dentro una grotta e mai spiegati, l’operazione Rosa Blu, i nani e i giganti, e via discorrendo lungo le inenarrabili invenzioni autoreferenziali che ho avuto modo di snocciolare in vari articoli. Un vero peccato, perché la tematica del doppio era già in nuce nella fibra stessa della narrazione dalle sue prime battute.
Gli ingredienti c’erano tutti: il cattivo gusto dell’albergo e di certe signore altolocate, in contrasto con la gentilezza e schiettezza del luogo; gli affari loschi degli adulti, a base di droga e prostituzione, in opposizione con l’amicizia sincera e l’amore incondizionato delle giovani generazioni; la signorilità di Dale Cooper e l’amicizia con lo sceriffo locale da un lato, la brutalità dei trafficanti e la meschinità degli intrighi imprenditoriali dall’altro. In mezzo, come spartiacque, Laura Palmer e i suoi insondabili segreti.
Il vero problema di questa narrazione è stato evidentemente la sua natura non propriamente seriale, ossia, parlando in termini di contraddizione tra forma e contenuto, l’impossibilità di continuare una trama che fosse solo basata sulle classiche dinamiche di una soap opera, per definizione basata su personaggi, e non su matasse da dipanare. Un mistero, prima o poi, deve risolversi, e dunque l’invito della ABC ad accelerare il processo investigativo non era poi così campato in aria. L’idea di fondere Dallas o Dynasty (non per niente, quest’ultima, proprio a marchio ABC) con una precisa indagine, per quanto affascinante e legata all’enigmatica figura di un’adolescente femme fatale in grado di trascinare tutti nella perdizione della follia, probabilmente avrebbe dovuto basarsi su meccanismi diversi da quelli adottati. Innanzitutto, una serie del genere mai e poi mai si sarebbe potuta concepire come narrazione allungabile ad libitum sulla base di un capriccio, poco importa se del regista o della produzione.
Dunque, la grande domanda resta una sola: Sarebbe possibile ricostruire la narrazione originaria di Twin Peaks, immaginando da cima a fondo lo sviluppo di una sceneggiatura completa ed esaustiva dell’intera vicenda, con una suddivisione in capitoli o episodi che tengano il meglio di quanto fatto e sviluppino gli eventi in altre, diverse direzioni?
Questo interrogativo sorge anche sulla base di alcuni oggettivi punti di forza che, nonostante tutto, hanno fatto di questo fenomeno televisivo un prodotto piuttosto importante e riconosciuto come innovativo. In primis, la capacità di coinvolgere un pubblico tendenzialmente giovane, attraverso elementi che, pur inserendosi in una narrazione spesso destinata a fasce anagrafiche più adulte, premeva molto l’acceleratore su inquietudini, passioni, confusioni e turbamenti tipici dell’adolescenza e degli scenari da college statunitense. Oltre a questo, impossibile tacere l’evidente efficacia di determinati colpi di scena, per quanto spinti oltre il limite del grottesco: si pensi al bizzarro psichiatra con la sua mania per le Hawaii, che cela all’interno di una noce di cocco il noto pendaglio spezzato di Laura Palmer (di certo un MacGuffin hitchcockiano mancato), oppure l’improvvisa entrata in scena di un corpulento uomo d’affari giapponese, che si rivela essere la scomparsa Catherine Martell. Si tratta evidentemente di elementi molto difficili da gestire, che appunto, nel corso della serie sono stati letteralmente gettati alle ortiche con soluzioni sempre più vacue, la cui vena mistica e soprannaturale non basta certamente a neutralizzare l’incontenibile effetto comico: una su tutte, l’eliminazione del personaggio dell’asiatica Josie Packard, che letteralmente scompare assorbita metafisicamente da un comodino!
Insomma, sarebbe interessante raccogliere antologicamente tutto ciò che nella serie classica, intesa chiaramente come setting precedente alla distruttiva introduzione di BOB e di tutto ciò che ne consegue, ha effettivamente funzionato, per capire cosa farne di effettivamente buono nell’economia di una narrazione completa e formalmente ineccepibile.
L’idea della trama mystery a mio avviso è da tenere, così come è da tenere quella certa nota esoterica portata in scena dai metodi deduttivi “allargati” dell’affascinante agente Dale Cooper. Bella ed efficace anche la presenza di industriali e uomini d’affari corrotti, che si alternano tra i denari generati dalla struttura alberghiera del posto (sfruttata pochissimo, se consideriamo quanto essa potesse essere subliminalmente sovrapposta alle atmosfere del ben più noto Overlook Hotel), e dall’azienda che produce legname (pure quella, completamente dimenticata, nonostante le tantissime potenziali connessioni che avrebbe potuto generare). Molto interessanti anche i rapporti tra ragazzi, ora ribelli, ora romantici, ora implicati in sporche faccende di droga per evidente noia esistenziale (perfetto in questo senso il personaggio di Bobby, il cui padre militare era chiaramente stato impostato, nella versione originaria, come emblema del conservatorismo statunitense benpensante, e mai e poi mai si sarebbe tramutato in quella sorta di viaggiatore metafisico poi imposto a suon di contraddizioni dagli assurdi voli pindarici di Lynch). Che dire poi di Audrey Horne? Dalle prime puntate una perfetta figlia di papà, sensuale, capricciosa, gratuitamente crudele, che solo per un’inspiegabile e inattendibile volontà registica viene improvvisamente e senza alcun motivo trasformata in una ragazzina dal cuore d’oro, pentita non si sa per cosa. Al contrario, il suo personaggio sarebbe stato perfetto, assieme a vari altri, per depistare le indagini, visto che è evidente che il colpevole si sarebbe dovuto trovare attraverso un colpo di scena del tutto imprevedibile. Forse tutta la cittadina ha avuto parte al delitto, oppure è stato proprio il più insospettabile. Cooper stesso? Se sì, in che modo? Capite bene che un “classico alla Agatha Christie” non sarebbe stato comunque male come idea di base, sulla quale innestare le intuizioni grottesche e surreali di Lynch. Anzi. Sarebbe stata la via migliore.
Eccomi dunque giunto a colmare l’ultima, ultimissima lacuna che a detta di tutti dovevo colmare per il completamento di quello che ormai posso chiamare l’affare Twin Peaks. Vi ho già abbondantemente parlato delle prime due “storiche” serie, per poi saltare direttamente alla terza, ovvero quella dei venticinque anni dopo. Evidente che mi mancava il fantomatico film del 1992, che a detta dei tutti di cui sopra mi avrebbe fornito le chiavi interpretative per chiudere il cerchio e comprendere tutto.
Ebbene, il film Twin Peaks: Fuoco Cammina con Me non ha fatto altro che confermare in pieno il giudizio generale che ho già dato. Un giudizio sostanzialmente negativo, che torna a interpretare l’intera operazione come una buona intuizione iniziale, trasformata dopo poco — forti del grande successo di pubblico — in una sorta di giocattolo registico nelle mani di un Lynch troppo seriale per essere astratto, e troppo astratto per essere seriale.
La trama è quella di un prequel fatto solo per tentare di spiegare cose che non solo non si spiegavano nella (da poco conclusa) serie storica, ma non erano neppure state prese in considerazione, essendo la storia complessiva e risultante una claudicante improvvisazione su temi di un esoterismo più ridicolo che inquietante.
Giunti a metà film veniamo a sapere:
che un altro fatto delittuoso è stato precedentemente consumato;
che alcuni agenti FBI sono scomparsi nel nulla;
che un agente impersonato da David Bowie è invece dal nulla ricomparso (per fare quella che, a questo punto letteralmente, è proprio una comparsata e niente più);
che il padre di Laura Palmer è uno che cambia personalità non si sa bene per cosa (ovvero, si sa, ma il dettaglio non fa né caldo né freddo);
che nel retroscena ci sono delle storie di droga (appiccicate con lo sputo sulla pellicola);
che Laura Palmer si droga, si concede carnalmente e assorbe su di sè — stile Jack Torrance — tutte le forze esoteriche della zona, impazzendo ogni tanto e poi tornando perfettamente normale senza alcun motivo;
che ogni tanto saltano fuori un nano, un’anziana signora, un bambino elegantemente vestito, una maschera, e la lista potrebbe continuare.
Il tutto viene consumato all’insegna di dialoghi brutti, artificiosi e stereotipati, messì lì tra una scena inefficacemente misteriosa e l’altra chiaramente per tentare didascalie di una logica pregressa che il regista è il primo a ignorare completamente. Ma non solo: le scenette “boschive” notturne dove la Palmer, assieme al giovinastro di turno (Bobby in testa), mette in scena tutta sé stessa nell’esplodere istericamente su questo o quel tema rasentano la recitazione da cult horror di serie Z anni Ottanta.
Sembra veramente che la produzione abbia prescritto a Lynch un film “tanto per portare al botteghino i fan di Laura Palmer dei primi episodi poi gettati alle ortiche”, col solo intento di rivelare un mistero fatto di pezzi che non collimano, o che delineano un background incoerente che nessun misticismo potrà mai rendere efficace.
L’intera operazione — parlo ovviamente di quella storicizzata — arriva, con questo film, a deteriorarsi in un faticoso collage di spezzoni che sulla carta dovrebbero funzionare come zuccherini per il pubblico, ma che in realtà si guardano senza alcun interesse: Laura Palmer fa la zoccola e dice una parolaccia, Laura Palmer custodisce segreti e fa una faccetta strana, Laura Palmer musa di non so che cosa, Laura Palmer intermediario dei mondi e viaggiatrice del tempo non si sa bene come, e via discorrendo lungo una sequenza dove l’antecedente non produce nulla per rendere appetibile il conseguente. Effetto finale: il film amatoriale di un liceale che non sa bene che rappresentare, e filma le compagne di classe più carine.
Insomma, se la seconda stagione, una volta presa la piega del “tutta colpa di BOB”, aveva purtroppo già fatto dimenticare gran parte della verve grottesca e torbida che si respirava nella prima, con questo lungometraggio l’oblio verso qualsivoglia buona idea potesse scaturire dalle “Vette Gemelle” appare totale e definitivo.
Più precisamente, in questo film gli spezzoni più lynchiani si alternano, sempre inutili e vacui, a sequenze che danno l’impressione di raccordi chilometrici per giustificare la tale battuta, questo e quel passaggio, oppure anche solo per tentare di distrarre lo spettatore, fino a che — in quella specie di orgia che viene organizzata nel bar malfamato — solo le tette al vento della Palmer sembrano costituire l’unica motivazione plausibile per salvare qualcosa del lungometraggio, con tutta la tristezza che ne consegue.
La domanda, scena dopo scena, sgorga spontanea: ma veramente stiamo parlando dello stesso regista di Cuore Selvaggio e Velluto Blu?
Avete presente il vecchio adagio della buona narrazione? Mostrare, non dire. Ecco, in questo film l’epopea del “dire” si squaderna in tutta la sua prepotente inefficacia. Tutto è detto, tutto è didascalico, nulla viene mostrato, per il semplice fatto che non c’è nulla da mostrare per rendere credibile ciò che solo la parola, imprecisa e vuota, può spiattellare nella sua funzione di pura supplenza. I concetti chiari vengono ripetuti più e più volte, creando nello spettatore un senso di profondo fastidio: della serie ok, non sono imbecille, vai avanti… Quelli oscuri, invece, all’opposto vengono appena abbozzati, tanto che alla fine lo spettatore stesso comincia ad annoiarsi.
L’uso del commento sonoro, poi, è pessimo. A parte i bei temi conduttori di Badalamenti, certamente efficaci nei primissimi episodi, qui comunque decisamente meno sensati, l’idea di caratterizzare le scene inquietanti con specifici sottofondi astratti e cavernosi, mandati in loop senza alcun criterio, risulta essere, come dire, pura teoria, in quanto l’intento appunto forzosamente didascalico ne affiora decuplicato nella sua dichiarata volontà di stupire chi proprio non ha alcuna intenzione di stupirsi.
Le sequenze procedono circa così: la scena parte tranquillamente, poi accade qualcosa che introduce urla, frasi sconnesse, follia, visualizzazioni di luoghi “simbolici” che in realtà non vengono a dire un bel nulla, citazioni, che parimenti ci lasciano del tutto indifferenti, e infine tutto viene ricondotto alla normalità per effetto di frasi fatte, commenti idioti e banalità di ogni genere. Fine della scena, passiamo ad altro, e via così fino alla fine del film, non senza momenti di comicità involontaria, come detto.
Riassumendo: Se appunto escludiamo le idee e gli oggettivi risultati delle prime puntate, nel suo complesso ilTwin Peaks del periodo 1990-92 finisce per diventare il brodo allungato a dismisura attorno a un setting presto spiegato: In una certa cittadina, alcune giovanissime ragazze si prestano a giochi sessuali orditi da maturi mandanti altolocati, conditi da traffici di droga e prostituzione, e con sconfinamento in incesti e altre nefandezze. A partire da una certa puntata, è di rigore attribuire questa libidine distruttiva a forze soprannaturali, la cui descrizione — sempre più sfuggente ed ellittica — è affidata unicamente all’arbitrio di David Lynch, sulla base di quello che ha sotto mano: oggetti, materiali girati a caso, attori non professionisti, improvvisazioni del momento.
Sul serio. Non sto scherzando. Twin Peaks alla fine è questo e solo questo. Un episodio pilota di successo — con qualche idea veramente interessante (l’impianto di soap opera affiancato a una trama di investigazione, con personaggi grotteschi) — tramutato passo dopo passo in una sorta di isteria collettiva a puntate, dove qualsiasi unità formale e contenutistica viene a disintegrarsi pezzo per pezzo dopo l’avvento di BOB (l’entità demoniaca, o forse una delle entità demoniache implicate, non saprei dire con certezza) e di tutti i voli pindarici per darne una giustificazione. Punto, fine, stop. La stessa presenza fugace di David Bowie appare come ultima spiaggia per raccattare un consenso aggiuntivo, da affiancare al passaparola sulle tette della Palmer rivelate al mondo.
Il prequel in oggetto carica sul suo groppone tutto il peggio, facendo dimenticare il meglio, ahimè lasciato alle spalle un anno e passa prima. Lynch, amante delle sardine e del tiramisù, del risotto ai porcini e del frullato di banana, ha voluto confezionare una ricetta che includesse tutti questi ingredienti. Poi si è reso conto che faceva schifo: ha aggiunto zucchero, ma diventava troppo dolce. Ha aggiunto sale, ma virava sul salato. Poi si è reso conto che non funzionava. L’ha messa nel mixer per ottenere una salsa, e ha continuato a usarla per condire la scena successiva, ancora e ancora, fino a estreme conseguenze.
Ebbene sì. Siamo arrivati — io e mia moglie — a vedere anche tutta la terza fantomatica terza serie (il ritorno, venticinque anni dopo, o come volete chiamarla) di Twin Peaks, ivi compresa la diciottesima puntata che si chiude con una molto stressante battuta: “In che anno siamo?” (Urla del tutto ingiustificate della sosia — o non so cosa — di Laura Palmer versione stagionata, e titoli di coda.)
Quest’ultima fatica è l’ennesima di una lunga maratona che ho avuto modo di snocciolare ai miei lettori punto per punto.
Ora, non abbiamo ancora visto il film “prequel” del 1992, ok, e molti di voi diranno che no, che è una lacuna imperdonabile, che bisogna vederlo a tutti i costi per capirci qualcosa, e via discorrendo. Ma io mi chiedo: cosa mai potrei vedere in un film, peraltro riferito a fatti cronologicamente precedenti a quelli narrati nei trenta episodi della serie classica, per capire quello che Lynch ha voluto dire in questi diciotto episodi uno più melmoso e faticoso dell’altro?
Diciamocela tutta. Attori magnifici, qualche momento veramente emozionante, citazioni e auto-citazioni a non finire (molte delle quali divertenti), camei, simbolismi, e chi più ne ha più ne metta… Ma alla fine della giostra (o del giorno, per citare una canzone piantata lì per farci digerire cinque minuti di inutile amplesso) cosa mi resta di questa mitologia televisiva durata ventisette anni?
In termini di cronologia mi sono già espresso, e posso sintetizzare l’idea in poche battute. Twin Peaks nella sua versione storica altro non è che un grande successo in forma di “soap opera tinta di giallo dai toni oscuri e surreali”, dove Lynch ha pigiato l’acceleratore fino a trasformare l’intero progetto, a circa metà della seconda stagione, in un suo giocattolo comunicativo dove sperimentare gli enigmi più disparati in tema di metafore esoteriche, paradossi temporali, simbologie freudiane, possessioni demoniache, abbozzi di teorie cosmologiche sullo spaziotempo, e chi più ne ha più ne metta. La terza stagione altro non è che una colossale fan-fiction che riprende tutto questo materiale per farlo lievitare a livello parossistico, fino a un finale che ovviamente non conclude un bel nulla, ma anzi pontifica ulteriormente sulla superiorità del regista rispetto a noi comuni plebei incapaci di capire.
Ora, intendiamoci. La mia polemica non vuole assolutamente scalfire la grandezza di questo importantissimo cineasta, autore di indiscussi capolavori e caratterizzato da uno stile che, piaccia o non piaccia, ha fatto la storia del linguaggio visivo. Ma il carrozzone quasi trentennale di Twin Peaks, diciamocelo chiaramente, visto tutto in una volta appare come una grandiosa e direi anche faticosa arrampicata sugli specchi per mimare a tutti i costi la genialità onnivora di un prodotto che, in realtà, è solo una cosa: un’occasione mancata.
Le ellissi temporali, i silenzi, le assurdità disseminate ovunque, sarebbero state perfette, se solo il regista avesse dato prova concreta di sapere dove andare a parare. I viaggi nel tempo diluiti fino allo sfinimento, quelle fastidiosissime immagini in sovrapposizione — che sarebbero andate bene in un buon pezzo di Peter Greenaway, magari un documentario da Biennale — mescolate a stop-motion che pure negli anni Sessanta avrebbero giudicato fatta malamente, per non parlare dei tanti, troppi inserti astratti, che non giudico insostenibili in quanto incomprensibili, ma insostenibili perché lesivi di una qualsivoglia razionalità ritmica della narrazione, tutte, ma proprio tutte queste cose le avrei tranquillamente accettate. Ma non così. Non lungo una quindicina di ore condotte senza un minimo di solidità del costrutto “a monte” di ogni movimento e scelta registica.
Certo, mi rendo di quanto tutto il progetto Twin Peaks scaturisca in fondo da un dirottamento folle, da un compito per casa praticamente impossibile: correggimi un mystery classico “a tinte forti” per farlo diventare un trattato di tuttologia esoterica, tenendo presente che le puntate già andate in onda non si possono modificare. Però è Lynch che ha preso questa strada. Lui e solo lui ha voluto forzare la mano della produzione per giungere a questi voli pindarici.
Operazione di successo? Ok. Anche Sanremo — lungi da me il volerla associare a Lynch — ha successo, eppure a me non piace. Tanto più che l’esoterismo spiegato alle masse tramite entità demoniache frutto di errori compiuti sul set, o attraverso effetti sonori fastidiosi, o improbabili band riprese a fine puntata, non credo abbia prodotto chissà che illuminazioni mistiche negli spettatori.
Qua e là, di trovate carine, ce ne sono indubbiamente: il tema del doppio cattivo, i fratelli gangster che alla fine si rivelano di buon cuore (a mio avviso, neppure poi tanto, ma concediamo a Cooper questa licenza poetica), qualche scazzottata dai tratti abbondantemente soprannaturali, e via discorrendo. Ma il problema è un altro, e qui giungo veramente all’ultima parola sul progetto.
Twin Peaks è quello che è di solito una soap opera, ovvero un campo espressivo televisivo profondamente seriale dove il regista, giorno dopo giorno, si chiede: “Che combiniamo oggi con gli attori? A che punto siamo? Cosa possiamo inventarci?” Purtroppo, però, la forma operativa di Twin Peaks non poteva assolutamente andare di pari passo con l’obiettivo sostanziale dichiaratoo fatti intendere, ossia la volontà tutta autoriale di illustrare una metafisica prepotentemente soprannaturale che — per definizione — avrebbe dovuto essere non chiara, ma chiarissima “a monte” (perdonate l’implicita battuta che allude solo per caso alle “vette gemelle”) negli intenti del regista. Cosa che non è mai stata; o, se lo è stata, non ha mai avuto modo di dare eloquente prova di sé.
Insomma, a me pare che la troppa carne al fuoco abbia “camminato con Lynch” per troppe puntate. Tanto che ora è veramente giunto il momento di mettere la parola fine, passando ad altro e confidando in progetti più unitari e comprensibili.