Per una Vera Storia di Twin Peaks

Come ho spiegato altrove, io non sono stato uno spettatore “storico” dell’altrettanto “storica” serie di Twin Peaks. A suo tempo, ho assistito a questo fenomeno televisivo da osservatore del tutto estraneo e non coinvolto, in quanto l’emittente che lo trasmetteva non veniva ricevuta nella zona dove abitavo, e la sua fama mi arrivava di conseguenza per sentito dire, attraverso citazioni da parte di amici e media. Ho colmato questa lacuna ben oltre trent’anni dopo, attraverso le attuali piattaforme di streaming che mi hanno consentito di visionare la cosa quasi tutta d’un fiato, e ne ho tratto tutto ciò che avete potuto leggere.

In questo stesso blog trovate raccolti vari articoli in materia…

Per non so quale ragione, sento di dover dare un’interpretazione globale e riassuntiva dicendo quanto segue.

In buona sostanza, il sopraccitato fenomeno televisivo (non mi stancherò mai di chiamarlo in questo modo, perché esattamente di questo si tratta) si apre e si chiude in un periodo piuttosto limitato, che copre sostanzialmente il triennio dal 1990 al 1992. Tutto il materiale poi ripreso nel 2017 in quella che viene sinteticamente denotata come “terza stagione” deriva dunque da un corpus “classico” centrato in un mondo lontano anni luce dal nostro.

Cronologia: la sintesi

Riassumendo, le grandi sezioni costitutive l’universo di Twin Peaks sono quindi tre:

  1. Dal 1990 al 1991, prima e seconda stagione della serie televisiva, costituita più precisamente da un episodio pilota di circa un’ora e mezza, sette episodi standard della durata di circa 45 minuti, più ventidue episodi di analoga durata che vanno a costituire una “seconda stagione” in realtà abbastanza anomala, visto che l’ultimo episodio della prima e il primo della seconda risultano del tutto consequenziali, come se effettivamente la serie reale fosse costituita da trenta episodi tutti in fila.
  2. Un film prequel del 1992, Twin Peaks: Fuoco Cammina con Me, che di fatto viene girato non solo, come ovvio, per sfruttare il grande successo di pubblico ottenuto dalla serie, ma anche per spiegare — o tentare di spiegare — i numerosi punti oscuri della vicenda complessiva narrata.
  3. Una terza stagione datata 2017, dove numerosi personaggi della serie, ovvero i rispettivi interpreti reali, tornano dopo venticinque anni per una sorta di reunion globale, atta a chiudere definitivamente la vicenda con nuove rivelazioni.

Alla luce di questo quadro strettamente temporale, e sulla base del grande disappunto che nel complesso ho provato visionando tutte e tre le sopraccitate sezioni, mi sono posto come ovvio svariate domande, cercando di individuare le risposte più sensate, documentate e oggettivamente valide.

Citiamo i fatti nudi e crudi…

Primo fatto: Il progetto denominato Twin Peaks, ovvero I Misteri di Twin Peaks, nasce come “semplice” tentativo di proporre una narrazione investigativa in modalità seriale, con elementi del tutto classici, per quanto interpretati da un duo registico molto particolare (Frost e Lynch). Questi elementi, anche se inseriti in un quadro spesso a tinte forti da soap opera, per non dire bizzarri e surreali, sono immediatamente riconoscibili e di certo non nuovi: la cittadina statunitense apparentemente tranquilla e in parte isolata, il fatto delittuoso che la sconvolge, l’entrata in scena di un investigatore “da fuori”, la presenza di personaggi che sembrano nascondere qualcosa, una crescente percezione di misteri inconfessabili incarnati nella doppia vita delle vittime, etc…

Secondo fatto: Gli episodi della prima stagione, e una buona metà di quelli della seconda, propongono una ritmica narrativa che effettivamente cattura il pubblico; un pubblico che, lo ricordiamo, era quello della fine anni Ottanta, abituato alla dinamica tutta televisiva delle attese tra un episodio e l’altro, con tutto ciò che poteva derivarne in termini di passaparola e sensazionalismo. Gli ingredienti della narrazione popolare di successo ci sono tutti, e molti superano anche le aspettative: sentimenti forti, amori, tradimenti, intrighi, passioni, promiscuità sessuale, ambiguità, rapporti tra generazioni, mistero, nonché una punta di misticismo rappresentata da alcuni enigmi e procedure investigative fuori dal comune.

Terzo fatto: A un certo punto — si tratta di oggettività che non solo affiorano chiaramente dalla narrazione, ma sono state candidamente ammesse dallo stesso Lynch — accade qualcosa che cambia completamente il corso della serie. La produzione pretende che il colpevole venga rivelato prima del tempo, in quanto gli ascolti presentano una lieve flessione. Lynch accetta suo malgrado, ma a suo modo si vendica, utilizzando un girato che annovera come personaggio presente in scena per puro caso. Si tratta di un membro della troupe tecnica, per la precisione un arredatore, che però ha una faccia estremamente inquietante e una risata da folle, che a Lynch piace tantissimo. Parliamo di quello che verrà denominato col nome di Bob, e che comparirà qua e là caratterizzando da subito una svolta prepotentemente soprannaturale della vicenda. Bob è infatti una sorta di entità demoniaca in grado di possedere chiunque, e dunque di prendere la forma del corpo ospitante.

Quarto fatto: Una buona metà degli episodi complessivi di Twin Peaks si caratterizza palesemente come messa in scena di eventi sempre più bizzarri e surreali, sia nelle situazioni che nell’inspiegabile sviluppo di determinati personaggi, il tutto in crescente contraddizione sia stilistica che tematica con gli episodi precedenti. Questo vero e proprio inseguimento della reinterpretazione del “prima” già detto e del “dopo” da reindirizzare e — inevitabilmente — correggere determina un accavallarsi di situazioni grottesche che trasformano l’intera vicenda in una sorta di campo di sperimentazione dove soprattutto Lynch porta intuizioni ora disturbanti, ora divertenti, ora definitivamente noiose e autoreferenziali.

Quinto fatto: Per spiegare, a serie conclusa, la stessa serie, interviene la necessità di un lungometraggio che possa spiegare il passato di Laura Palmer nella cittadina di Twin Peaks.

Corollari, domande e risposte

La domanda mi sorge spontanea proprio in relazione a questa cronologia storicizzata, che è appunto il corpus di base al quale riferiamo tutto l’amore verso Twin Peaks.

Ora, è chiaro che l’intera narrazione in questione è scorporabile in due tronconi: da un lato, un’originaria narrazione investigativa, con personaggi accattivanti, passionali e bizzarri spinti lungo la ricerca di un colpevole all’interno di un mistero; dall’altro lato, una narrazione che si arrampica sugli specchi per correggere o reindirizzare “cose già dette e illustrate al pubblico” al fine di rendere coerente la totalmente incoerente presenza di Bob.

Come è possibile che una narrazione caratterizzata almeno da un 50% di “trame espedienti”, raffazzonate per reggere gli effetti di un errore clamoroso, possa aver generato un così vasto numero di appassionati, tanto da creare un vero e proprio universo?

La risposta a mio avviso è da ricercare nei pesi e contrappesi che si sono generati lungo le dinamiche del successo di questo fenomeno. Ossia, siamo al cospetto di un vero e proprio “evento televisivo”, in fondo concentrato, circoscritto, puntuale, confinato in tre anni di programmazione, che non solo grazie ai voli pindarici dei suoi gestori — Lynch in testa, per ovvie ragioni — ma anche e soprattutto per una serie di favorevoli congiunture è stato in grado di generare prima un crescente interesse per i suoi punti di forza, e successivamente un interesse paradossalmente maggiore per una lettura multiforme dei suoi punti di oggettiva debolezza.

Più sinteticamente, Twin Peaks è diventata una specie di grande vetrina pop in grado di veicolare sia le follie registiche di Lynch, sia svariati ulteriori contenuti che avessero diretta o indiretta attinenza con tematiche quali soprannaturale, complotti, arte e bizzarria declinata in tutte le possibili direzioni.

Attraverso questo schema interpretativo, che appunto sintetizza dati del tutto oggettivi, spiccioli e fattuali, la natura funzionale della terza stagione — ossia “il ritorno” venticinque anni dopo, peraltro contenuto nella stessa serie classica in forma di promessa — risulta immediatamente spiegata: c’era la possibilità di “riaprire la vetrina” e riprendere in mano una mitologia radicata nell’immaginario collettivo, per sfruttarla nuovamente come lasciapassare universale, e così è stato fatto, utilizzando i più evoluti strumenti del linguaggio televisivo. Il format Twin Peaks diventa nuovamente contenitore per apparizioni e camei, presentazioni di band musicali, scenario per esperimenti d’avanguardia e citazioni, colpi di scena, elementi disturbanti e volutamente messi in mostra per infastidire l’attonito spettatore, stranezze compiute nel nome dell’onnipresenza del “doppio” da sempre implicito (la traduzione del titolo, le vette gemelle), momenti comici e letteralmente chi più ne ha più ne metta.

L’intera storia di Twin Peaks narra dunque, al di qua e al di là dello schermo, la trasformazione artificiale di una serie di successo in vero e proprio giocattolo mediatico di culto nelle mani di David Lynch per veicolare gli esperimenti espressivi più disparati.

E questa è la mia ultima parola in materia. Forse.

Il Vero Mistero di Twin Peaks Risolto da Me Medesimo

Come sapete, ho recentemente visionato l’intera serie classica di Twin Peaks.

Si tratta, come certamente molti di voi sapranno per esperienza diretta, di un prodotto evidentemente vintage, che ormai fa parte di un certo immaginario collettivo, e che andava certamente rivisto. (Nel mio caso, visto e basta. Ribadisco infatti che all’epoca, a differenza dei tanti miei amici quindicenni che me ne parlavano, io non riuscii materialmente a seguirlo, a causa di una banalissima indisponibilità del canale che lo trasmetteva.)

A parte alcune già espresse considerazioni su certi aspetti esoterici e simbolici della serie, credo che, soprattutto in relazione a un vago disappunto che ho percepito nel fruire dei primi episodi della tanto attesa “reunion” del 2017 (anche se in un contesto del tutto slegato dal giudizio su questo addendum, che a mio avviso è da valutare del tutto separatamente, e in un secondo tempo, dopo ovvia visione della sua interezza), un’analisi complessiva di quest’opera vada fatta. Ed è quello che tenterò, spero sinteticamente, ma esaustivamente, in questo articolo.

Ora, prima di cominciare, una breve puntualizzazione. Io a rigore non ho ancora visto il film Twin Peaks: Fuoco Cammina con Me, ovvero quella sorta di “tassello” del 1992 che, delineando il prequel dell’intera storia, a detta di molti costituisce requisito fondamentale per capire tanto le prime due stagioni, quanto la terza prodotta a distanza di anni. Tuttavia, mi perdonino gli sfegatati amanti di questa produzione, io rimango fermo nelle mie posizioni, in quanto ritengo che una serie, o una qualsiasi opera narrativa, che in quanto tale non funziona non possa assolutamente essere “corretta” da altre opere che — diciamocelo chiaramente — vadano a tirare per i capelli questo e quello per rendere appena accettabile ciò che non è stato a monte progettato in modo coerente. Tanto più se consideriamo che questo prequel “aggiusta-trama” è stato prodotto dopo la fine della seconda stagione, appunto per sistemare, o tentare di sistemare, ciò che non andava.

Premesse

Twin Peaks è un prodotto più che mai immaginato nell’alveo degli ultimissimi Anni Ottanta, e proposto a cavallo dei due decenni. A cosa devono aver pensato gli sceneggiatori — la premiata ditta Lynch e Frost, si direbbe — immaginando questa serie? Io credo proprio sia andata così…

  1. Costruiamo uno scenario fatto di luoghi e personaggi che seguano i dettami di una classica telenovela o soap opera: passioni forti, tradimenti, triangoli amorosi, personaggi in grado di interpretare il meglio e il peggio del pubblico, uomini e donne d’affari in lotta tra loro, segreti, cattiverie, promiscuità sessuale, fascino stereotipato e una buona dose di kitsch.
  2. Aggiungiamo a questo scenario delle caratteristiche tipiche di un thriller, con un forte sentore di mistero e a tratti di soprannaturale, il tutto condito (e qui entra in scena l’estetica di Lynch) da inserti vagamente disturbanti o stranianti (deformità, mutilazioni, follia, insensatezza, inspiegabilità di comportamenti e pose, bizzarria ingiustificata, etc…).
  3. Uniamo il tutto in un episodio pilota e stiamo a vedere quello che succede in termini di gradimento, rimandando alla prossima puntata la risoluzione degli eventuali problemi.

Trovo molto importante sottolineare quest’ultimo concetto — “la prossima puntata” — perché non dobbiamo mai dimenticare quanto questa produzione fosse legata a un modello di fruizione del tutto televisivo, piuttosto lontano dalla morfologia on demand tipica delle piattaforme di streaming attuali. All’epoca il pubblico attendeva ansiosamente “la puntata” in quanto era proprio questa attesa che caratterizzava l’efficacia di un certo prodotto, sorta di perfetta versione visiva della cosiddetta letteratura d’appendice d’ottocentesca memoria.

In altre parole, credo sia importante capire che se un giudizio attuale, legato dunque a una fruizione “tutta d’un fiato o quasi” da piattaforma streaming, può anche mettere in luce alcune aporie, trasportando invece l’opera originaria alla sua epoca, ossia intendendola come mix più complesso in grado di annoverare in sé anche i silenzi tra puntata e puntata, tale giudizio non può che essere ben diverso e di certo più positivo. Stiamo infatti parlando di una serie a dir poco cult, che già all’epoca della sua programmazione registrò ascolti record.

Alla luce di tutte queste mie considerazioni posso dunque affermare quella che ritengo essere l’unica difendibile e razionale tesi in materia di Twin Peaks.

Con tutta probabilità (*), gli sceneggiatori non avevano minimamente idea di cosa fosse o potesse essere la natura dei segreti di Twin Peaks. L’episodio pilota della serie, nonché tutti gli episodi della prima stagione, più i primi della seconda, di fatto mettono in scena la violenta scomparsa di una ragazza — che viene dipinta come “depositaria dei tanti e inconfessabili misteri e segreti” della popolazione — e la conseguente investigazione di un soggetto esterno che progressivamente li mette in luce.

(*) Addendum del 10/03/2024 — Ho parlato di “probabilità”, ma in effetti è una certezza. Lo stesso Lynch ammette candidamente che la figura di Bob è stata letteralmente inventata di sana pianta prendendo dei materiali girati che ritraevano un assistente di scena (dal volto particolarmente folle) capitato per puro caso davanti alla cinepresa, e che l’inserimento della tematica soprannaturale del “doppio” fu una sua rivincita verso la produzione, che aveva richiesto di rivelare con anticipo il colpevole in quanto gli ascolti stavano diminuendo.

Gli indizi che confermano comunque a prescindere questa mia tesi sono innumerevoli, e per molti versi si identificano in scala uno a uno con l’andamento dell’intera “serie classica”, le cui due stagioni, come ho già spiegato e come chiunque può notare, altro non sono che due filoni di un’unica sequenza di trenta episodi esatti complessivi. Da questo punto di vista, già lo squilibrio tra gli otto della prima e i ben ventidue della seconda può far capire quanto gli sceneggiatori si siano trovati, letteralmente, “nel bel mezzo di un irresistibile successo da tutelare e conservare”, e quanto debbano aver lavorato per “allungare il brodo” e costruire una seconda stagione capace di tenere il pubblico in costante attesa.

Non siamo dunque al cospetto di una novità assoluta. Pure in Italia, e in tempi non sospetti (gli anni Settanta), sono andati in onda sceneggiati a sfondo soprannaturale che hanno tenuto le persone letteralmente incollate allo schermo. Ricordiamo, che so, Il Segno del Comando, o A Come Andromeda, oppure Ritratto di Donna Velata.

Ma andiamo con ordine…

I primi episodi sono assolutamente e totalmente dominati dal “caso” di Laura Palmer, da un serpeggiante senso di follia e quasi di mistero soprannaturale che aleggia su alcune personalità, nonché — direi soprattutto — da forme di crudeltà gratuita che caratterizzano specifici personaggi. Il messaggio che passa allo spettatore è chiarissimo: Laura Palmer conosceva molto bene i segreti della gente di Twin Peaks, i suoi tradimenti, i suoi crimini, i suoi affari loschi, le sue infedeltà, e (con tutta probabilità) è stata messa a tacere da qualcuno.

Fino a qui, ammiccamenti stilistici ed “effetti” scenici a parte, siamo in fondo nell’alveo di una comune narrazione di investigazione, con una componente “torbida” resa più efficace solo grazie al già citato kitsch da soap opera (da notare anche che molte delle televisioni in scena, per una sorta di autocitazione esplicita, mandano in onda proprio le puntate di una telenovela che funge quasi da riferimento parodistico).

A un certo punto, che succede? Cosa cambia nel tessuto narrativo?

Come sappiamo, l’agente Cooper viene descritto come persona non solo ligia nel suo lavoro, simpatica e “trasparente” (quasi per contrasto con ciò che sembrerebbe circondarlo), ma anche come devoto e profondo conoscitore delle filosofie orientali, che crede fermamente nel potere dei sogni, nelle loro rivelazioni metafisiche, nonché, più in generale, alla sfera soprannaturale.

Ebbene, a un certo punto lo schema iniziale secondo me salta, e salta per una ragione che è sempre la stessa: il pubblico sta iniziando a simpatizzare coi personaggi, e la tesi della “crudele Twin Peaks” non può più essere sostenuta efficacemente.

Cosa possiamo fare per mantenere l’aura di mistero “da oscurità dei sentimenti umani” e nel contempo salvare i personaggi? Serve un’idea, che è poi quella che conosciamo tutti: c’è qualcosa nel bosco che arriva a possedere diabolicamente le persone, e dunque a giustificare atti che, in mancanza, mai e poi mai avrebbero compiuto.

Tuttavia questa scelta rappresenta per me, indipendentemente dal successo oggettivo (e in gran parte giustificato) delle puntate dalla decima di seconda stagione in poi, un’aporia di fondo, che si nota sempre di più e accompagna lo spettatore, di fatto, fino al colpo di scena finale. Un colpo di scena che salva più la produzione che l’opera in sé.

Gli indizi, ovvero le manifestazioni palesi di tale aporia sono numerose…

Laura Palmer si scarica completamente

Alla fine, l’assassino di Laura Palmer si rivela essere il padre, che “già da tempo” viene caratterizzato da una piuttosto ridicola e rocambolesca follia che lo rende prima catatonico ballerino, e poi do nuovo sereno uomo d’affari, coi capelli improvvisamente bianchi. Si tratta ovviamente di una possessione da parte di BOB, sorta di entità boschiva rappresentata da un improbabile personaggio dai capelli lunghi, sporchi e grigi (a occhio troppo, troppo somigliante a Randall Flag, ben noto villain dai poteri magici creato da Stephen King nel suo romanzo The Stand). Insomma, il padre è chiaramente scagionato sul piano morale, in quanto posseduto. L’effetto sorpresa è garantito, ma a che prezzo?

Il prezzo pagato è secondo me troppo alto, e proprio questo affossa la serie. Laura Palmer era depositaria di che cosa? Non si sa bene. Probabilmente aveva intrattenuto rapporti con Tizio e Sempronio, ok. Ma allora? Che senso ha averla fatta fuori, se a farla fuori, di fatto, è un’entità demoniaca che agiva attraverso un corpo del tutto innocente?

La verità che Twin Peaks fa una promessa al pubblico, e poi non la mantiene. Per evitare brutte figure, inizia a buttarla, come si dice, in caciara. Non una caciara plateale, ma una caciara diluita puntata per puntata. La classica rana bollita, insomma. Abbiamo scherzato, suvvia. Adesso inizia la storia vera.

Se da un lato questo espediente sembra salvare capra e cavoli, facendo virare ogni dettaglio misterioso sul soprannaturale e assolvendo un po’ tutta Twin Peaks, di fatto, dall’altro lato, otteniamo proprio l’effetto contrario. La natura “torbida” di Twin Peaks risulta essere del tutto inconsistente: un gancio utilizzato all’inizio per catturare l’attenzione, che però, a differenza del classico MacGuffin di Hitchcock, qui non funziona per nulla, in quanto rovina la coerenza percepita e costringe a usare gli attori in modo sempre più parodistico.

Laura Palmer perde tutto il suo potere “riassuntivo del mistero”, che le viene poi tributato a forza attraverso voli pindarici come ovvio smozzicati e incoerenti, misteri buttati lì a caso, frasi fatte. Insomma: una frase come “fuoco cammina con me” diventa solo un collegamento mentale, una risata registrata tanto per dirci: c’è qualcosa di strano che abita nei boschi e ha a che fare sia con Bob che con Laura Palmer, con la passione, il sesso, la cattiveria, e non so bene che cosa…

La “deità” Laura Palmer è difesa solo tramite slogan, ma la narrazione ha preso strade ormai diverse. Strade che però, puntata per puntata, si rivelano essere chiuse.

L’avvento di Bob — che abbiamo già detto essere un apporto totalmente casuale, usato da Lynch per prendersi una rivincita al cospetto della direzione “classica” impostagli dalla produzione — è l’elemento che mette in discussione tutto, trasformando tutta l’impalcatura di Twin Peaks in una gigantesca arrampicata sugli specchi per giustificare in via totalmente e platealmente soprannaturale qualsiasi assurdità possa avvenire al cospetto del pubblico.

Personaggi come scatole vuote

Un’altra caratteristica della serie classica di Twin Peaks è, ben coerentemente con l’aporia appena descritta, la trasformazione dei personaggi in scatole vuote, e l’aggiunta di personaggi nuovi che chiaramente dovrebbero ravvivare il quadro generale, e invece fanno peggio, come il sale e lo zucchero per aggiustare una ricetta ormai compromessa.

I passaggi ingiustificati non si contano. Perfetti stronzi senza cuore diventano magicamente dei benefattori dell’umanità, dopo aver passato inspiegabili (e noiosissimi) periodi di “quarantena” a base di rievocazioni storiche di antiche battaglie americane (dovrebbe essere una metafora?), con tanto di soldatini e bandiere sventolate. Femmine dipinte inizialmente come “fatali” e capricciose, oltre che intrinsecamente votate alla gratuita crudeltà, assumono di punto in bianco le sembianze di nuove eroine del tutto votate al bene comune (con tanto si svolte ecologiste e affini). Una bella ragazza che sembra dover essere destinata ai voti giunge in paese, si innamora di Cooper e poi, a fine stagione, viene letteralmente gettata alle ortiche. Un giovane miliardario arriva, seduce l’ex stronza descritta poco prima, e pure lui scompare nel nulla. Una suadente asiatica “capitana d’industria” conosciuta dalla primissima puntata, dopo aver fatto un po’ di viaggi in compagnia di strani compari ed essere tornata in veste di umile e declassata cameriera della sua ex collega, rivede un tizio che credeva assassinato e, dallo spavento, viene assorbita da un comodino (insomma, una parodia di Shining, dove ricorderete la fusione di Jack Torrance con l’Overlook Hotel, con la differenza che qui si ride alla grande). Per non parlare delle scenette tra la segretaria dello sceriffo, affetta da pesante insufficienza cognitiva e in dolce attesa, e i suoi due contendenti al ruolo di padre del futuro nascituro, ossia un poliziotto dal medesimo quoziente intellettivo e una specie di stilista di moda professionista delle faccette glamour anni Cinquanta. Degna di nota anche la storia d’amore tra un silenzioso “faccia da pugile” e una pazza con un occhio bendato (dotata di una forza erculea, totalmente inspiegabile e del tutto inutile nell’economia della storia), che per numerose puntate impazzisce (più di quanto lo sia già) e si crede una scolaretta, salvo poi tornare improvvisamente “normale”, non si sa bene sulla base di quale congiuntura astrale. Il tutto condito da militari che alludono a segreti militari, simboli geometrici ritrovati in una grotta, allusioni a logge bianche e nere cacciate a forza nei boschi, gufi, personaggi che arrivano dal passato a rompere le balle a Cooper, metafore a base di scacchi, giovinastri che si prendono una pausa e vanno a pomiciare con una sconosciuta più grande di loro, per poi pentirsi e tornare dall’amata, e l’elenco potrebbe continuare con nani, travestimenti, giganti, attori mutilati nella realtà (la cui mutilazione non viene di fatto mai spiegata), delegazioni di tedeschi, tirolesi, svedesi che non si sa bene che affare vogliano concludere, criminali internazionali che arrivano e se ne vanno solo dopo aver fatto un po’ di casino, concorsi di bellezza, un sindaco che si sposa con una cacciatrice di dote che aveva prima sedotto il fratello (altra femmina fatale, la cui funzione però viene dimenticata in corso d’opera per lasciare campo libero ad altri diversivi), e via discorrendo.

Conclude l’intera serie il viaggio (iniziatico?) di Cooper nei boschi, e in una strana stanza con tendaggi rossi (il fuoco, la passione, Laura Palmer, che diavolo ne so) dove un nano e un gigante (già protagonisti dei suoi sogni rivelatori) parlano al rallentatore, per poi trattenerlo e rispedire nel consorzio umano una sua versione “doppia”, chiaramente posseduta da BOB.

Insomma, metafora delle “vette gemelle” (Twin Peaks, appunto) rispettata come da contratto, e Cooper andato! Della serie, ci siamo persi pure lui.

Conclusioni

Che dire. Twin Peaks, alla luce di quanto detto, è quindi un prodotto brutto?

Io credo che definirlo tale sia sbagliato. Non si tratta, in definitiva, di una brutta serie. Per svariate puntate l’ho vista, mi sono divertito, sono rimasto affascinato da alcuni tratti e scelte stilistiche, tanto da poterla tranquillamente definire una narrazione che nasceva con molte idee interessanti e certamente efficaci: i colpi di scena, le investigazioni parallele degli amici di Laura Palmer, la figura dello psichiatra più folle dei suoi pazienti, le allusioni a intrighi a base di denaro e potere, etc… Il problema è che queste stesse idee sono state inserite in un quadro, quello delle soap opera, che di per sé è transeunte, pericoloso, assoggettato a troppe variabili. Risolverle con l’ausilio del soprannaturale è come spegnere un fuoco col cherosene.

Prendiamo per esempio American Gods, serie TV basata sul celeberrimo romanzo di Neil Gaiman. Da un punto di vista visivo, registico, contenutistico e attoriale si sarebbe potuta attestare come una delle serie statunitensi più iconiche della storia della narrativa a puntate. Infatti c’era tutto: gli dei del passato (le leggende, gli afroamericani, i rapporti con le mitologie norrene e il continente europeo), in lotta con gli dei del presente (la multimedialità, le nuove droghe, la bellezza, la moda, l’apparenza), il tutto in un quadro contemporaneo fatto di autostrade e motel, vagabondaggi, amori, sfide, rivalità, missioni, tormenti, amicizie… Stiamo parlando di un “plot” che avrebbe appunto potuto assurgere ad autentico capolavoro. Ma così non è stato. Le ragioni? Tutte banalissime: beghe varie, problemi con attori e produzione, cose congiunturali, insomma.

Twin Peaks faceva propria l’idea di un vero e autentico esperimento (che può dunque riuscire, come non riuscire): proviamo a vedere che succede a mettere l’avanguardia, il soprannaturale e il grottesco dentro una narrazione popolare fatta di luoghi comuni stile Dallas e Dynasty. Il risultato c’è stato, e non per niente questa serie è diventata di culto. Ma il “culto” non ha preso piede per ragioni di pura bellezza o efficacia.

In questo senso, credo che non resti neppure l’amarezza di un’occasione mancata, in quanto è evidente che Twin Peaks ha costituito, nel bene e nel male, l’ossatura di numerose narrazioni successive, perfettamente riuscite, per quanto ad opera di altri autori che hanno — come è giusto che sia — rubato e migliorato.

In definitiva, il vero mistero di questa narrazione resta solo questo: come abbia fatto ad essere ricordata, nel complesso, come un capolavoro, e non solo come evento televisivo di innegabile successo. Un mistero che forse non è un mistero.

Maratona Twin Peaks “Il Ritorno” Parte 1

Non basta inquadrare un attore fisso per un minuto, o mettere in scena un nano, per essere David Lynch. Questa cosa dovresti saperla soprattutto tu, David Lynch.

Filippo Albertin, dopo aver visto i primi episodi della terza stagione (2017) di Twin Peaks

Ebbene sì. Continuando la già nota maratona, ho iniziato a vedere la tanto acclamata (e attesa) “terza stagione” di Twin Peaks, che suona certamente più come reunion del cast che come effettiva continuazione di una storia che affondava le radici negli schemi televisivi di 25 anni fa.

Che dire. Come esordio di stagione, specie considerando i difetti delle ultime puntate delle prime due storiche stagioni, che credo molti di noi immaginavano come frutto di una certa stanchezza tipica dei set di prodotti seriali, non mi piace molto. Ossia, mi aspettavo oggettivamente qualcosa di più.

Non mi piace in quanto si capisce perfettamente che intende rimettere in scena qualcosa che di fatto aveva già preso la torbida via di una soap opera, più che di una narrazione a sfondo filosofico ed esoterico. Non mi piace perché, soprattutto, si capisce quanto la produzione sia più che mai tra due fuochi: da un lato la necessità, o opportunità, di rimettere in scena i vecchi personaggi, con tutte le loro manie e caratteristiche; dall’altro lato, l’onere di inserire a tutti i costi elementi misteriosi, che di fatto aggiungono confusione a un sottotesto già confuso.

Scene troppo lunghe. Elementi troppo criptici per avere un effettivo significato credibile, tanto da indurre lo spettatore a credere che neppure gli sceneggiatori sappiano dove andare a parare. Schemi narrativi e visivi che non catturano l’attenzione, o peggio la conducono in troppi punti, senza alcuna soddisfazione. L’alone di mistero è abbondantemente sostituito da una sorta di astrazione generale, resa ancora più fastidiosa da una lentezza totalmente ingiustificata rispetto ai contenuti, e da una fissità innaturale — ergo, per nulla ipnotica — delle inquadrature, delle situazioni, delle scene in quanto tali. Troppa carne al fuoco, si direbbe.

Che dire. Ovviamente non si può giudicare una serie dai suoi primi due episodi, ma per ora lo posso dire senza tanti mezzi termini: avrei fatto di meglio. Un lucido sguardo alle produzioni che da allora si sono avvicendate, infatti, mi avrebbe messo sulla via di una più solida interpretazione del mistero alla base della cittadina delle “vette gemelle”, con la volontà di rivelarlo con una ritmica non dico serrata, ma almeno in grado di tenere lo spettatore incollato allo schermo. Non possiamo avere a che fare contemporaneamente con un segreto militare stile X-Files, che poi diventa rivelazione metafisica (alla “Hanging Rock”, per dire), che poi assume le sembianze di una possessione stile antica leggenda degli indiani d’America, che poi sfuma in una miriade di ammiccamenti confusi, fino addirittura a toccare caratterizzazioni vicinissime agli esperimenti governativi in Stranger Things. In questo modo la serie diventa troppo d’avanguardia per essere un prodotto popolare, e troppo popolare per essere un prodotto d’avanguardia.

Cultura Pop, Metafore, Simboli e Richiami Esoterici in Twin Peaks

Come ho già detto, sto in questo periodo rivedendo (ovvero, vedendo per la prima volta, anche se la cosa può sembrare strana) le prime “storiche” due stagioni di Twin Peaks. Ho già parlato dell’importanza iconica di questa serie del 1990-91, ma mi andava di approfondire ulteriormente. Mi soffermerò senza una particolare logica consequenziale du aspetti specifici…

Le due stagioni

C’è da dire subito una cosa: la suddivisione in due stagioni non ha alcun valore narrativo, ma solo temporale, in quanto la storia viene letteralmente tagliata con l’accetta nell’ultimo episodio della prima, e si collega direttamente al primo della seconda, senza alcuna soluzione logica di continuità. Da questo punto di vista, l’opera che “classicamente” identifichiamo in Twin Peaks assume di fatto la forma di un’unica grande sequenza di episodi.

Questa considerazione, che potrebbe anche sembrare banale, potenzia ulteriormente il concetto di work in progress che denota questa serie e la avvicina a un prodotto “mezzo sperimentale e mezzo popolare”, con ampie incursioni nella serialità tipica delle telenovelas sia statunitensi che sudamericane.

Non posso ovviamente affermarlo con totale certezza, ma credo che la sceneggiatura ad opera del duo Lynch e Frost non sia stata scritta da cima a fondo, ma si sia generata attorno a schemi e intuizioni sviluppati gradualmente, in un secondo momento, o addirittura improvvisati sul set sulla base di un canovaccio generale.

Stile e temporalità

Se dicessi che siamo al cospetto di un totale capolavoro, che tiene incollato lo spettatore minuto dopo minuto allo schermo, direi oggettivamente qualcosa di molto discutibile. Senza alcun dubbio, la narrazione, specie attorno al decimo episodio della seconda serie, in certi punti diventa particolarmente noiosa, in quanto gli elementi che caratterizzano le singole vicende parallele dei vari personaggi a tratti sembrano seguire logiche del tutto autoreferenziali: scenette comiche, ammiccamenti, azioni che non portano ad alcun avanzamento della trama, misteri che sembrano citati a casaccio, o che mettono in scena stranezze che lo spettatore fatica a mettere in relazione al tema generale. Tuttavia, nonostante queste giustapposizioni, la serie si mantiene interessante.

Da un punto di vista percettivo, questa serie — che, lo ricordiamo, andava in onda non già in una piattaforma di streaming, ma lungo la programmazione televisiva standard, con lunghi intervalli di attesa tra un episodio e l’altro — funziona esattamente come una sorta di soap opera. Ossia, sullo schermo si muovono dei personaggi che per varie ragioni ci stanno simpatici (o profondamente antipatici), e che non si sa bene perché desideriamo rivedere, seguire, tornare a frequentare.

La componente misteriosa è una sorta di cifra stilistica aggiunta, come un ingrediente particolare che viene dosato in un cocktail di base in proporzioni variabili, per testare l’efficacia di un intruglio del tutto nuovo. In altre parole, siamo al cospetto di un test, di una specie di esperimento sociale che utilizza il pubblico come scandaglio, quasi sempre ricavandoci qualcosa di buono, visti gli ascolti record e la portata ormai storica di questa produzione che senza alcun dubbio etichettiamo come cult.

Una tranquilla cittadina rurale americana…

Quante volte, dai romanzi di Stephen King alle decine e decine di serie televisive partorite lungo anni e anni, ci siamo trovati di fronte alla tranquilla cittadina rurale americana che nasconde segreti occulti? Direi molte. Questo topos è talmente frequente da meritare un approfondimento addirittura antropologico.

Twin Peaks è appunto il nome della cittadina che ospita i fatti e le relazioni di questa storia così articolata e grottesca, segno evidente che il vero protagonista, in questa serie, non è tanto l’investigatore inviato dall’FBI per far luce sugli enigmi della zona, ma la zona stessa, che in qualche misura agisce attraverso i personaggi, li ipnotizza, li chiama, li ispira, ne interpreta aspirazioni, sogni e desideri. Il vero protagonista è il mistero che per definizione non viene rivelato mai, se non attraverso indizi spesso contraddittori.

Il background subliminale massonico…

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Gli ingredienti di questo mistero passano attraverso frasi criptiche, sogni, prodigi, diari ritrovati, possessioni demoniache, allusioni a segreti militari, leggende, citazioni… Tanto per dirne una, le strutture alberghiere del posto pescano a piene mani nella versione kubrickiana del celeberrimo Overlook Hotel, e numerosissimi decori degli interni ricordano direttamente Shining. C’è un’attenzione molto particolare al colore rosso dei tendaggi, ai motivi “nativi americani e geometrici” su muri e pavimenti, nonché al rapporto tra modernità consumistica “in serie” e antiche rappresentazioni facenti parte del passato selvaggio dei luoghi, soprattutto boschivi. Il tutto fa perno su numerosi simbolismi: il nano e il gigante che appaiono in sogno, le geometrie quasi rituali e massoniche, i riferimenti a una loggia bianca e a una loggia nera, nonché al gioco degli scacchi (il dualismo tipico del dettato esoterico della stessa Libera Muratoria), e via discorrendo…

Siamo dunque di fronte a un prodotto volutamente meticcio, che unisce avanguardia e cultura pop, bellezza e kitsch, alto e basso. Da notare che alcuni personaggi della serie rappresentano un dualismo a volte lacerante, che dal cinismo del crimine passa alla nobiltà d’animo senza alcuna gradazione intermedia. (A tale proposito, si veda la misteriosa tessera di domino — guarda caso, bianca e nera — misteriosamente assaporata da questo personaggio, che nella storia è proprio un ex carcerato che torna a Twin Peaks per ricostruire la sua storia d’amore.)

Il grottesco

Da questo punto di vista non c’è alcun dubbio: pur non giungendo agli estremi tipici del primissimo Lynch sperimentale, questa produzione rimane a tutt’oggi l’esempio più compiuto e forse unico dell’incursione del grottesco nella narrazione televisiva a puntate.

Il grottesco in questione non è quello, comunque presente, che affiora dalla scelta di attori ora effettivamente affetti da nanismo o gigantismo, ora fisicamente mutilati. La cifra assolutamente grottesca riguarda la sorpresa, l’allusione sessuale, l’improvviso arrivo di un agente dell’FBI che si rivela un travestito, oppure inspiegabili adorazioni del cibo, un villain che di punto in bianco costruisce un plastico e inizia a giocare alla guerra civile americana, uno psichiatra devoto alla cultura hawaiana con un paio d’occhiali con lenti di diverso colore, una moglie completamente pazza con una benda sull’occhio e la convinzione di essere una studentessa di college, oppure l’improbabile travestimento che trasforma una capitana d’industria di mezza età in un grasso uomo d’affari asiatico, e l’elenco potrebbe andare avanti…

Il grottesco di questa serie agisce su due fronti: dal di fuori, come “pennellata di assurdo” che si posa come vernice glitter sui personaggi, e dal di dentro, attraverso iterazioni narrative e personaggi di per sé difettosi, con elementi che non tornano, mutano, si invertono lungo la scia di possessioni curiose e “catarsi” indecifrabili.

Il grottesco si manifesta attraverso dinamiche curiose: una donna misteriosamente assorbita da un comodino (parodia della celebre sequenza finale del già citato Shining?), uno spietato uomo d’affari improvvisamente convertito all’ecologismo e alla protezione di un tipico furetto della zona rurale, un personaggio che ingaggia una partita a scacchi a distanza e compare in rocamboleschi travestimenti ai membri della comunità, un’improbabile sfilata di moda a base di abiti di lana cotta, e via discorrendo. Lo scenario assume la forma di un gigantesco campionario della stranezza, che tuttavia viene snocciolato lungo una sintassi registica assolutamente piana, equilibrata, quasi didascalica, anche se mai banale.

Conclusione

La serie “classica” di Twin Peaks è stata indubbiamente un evento cult nella storia della televisione popolare. I motivi sono indubbiamente molti, e non tutti legati all’oggettiva qualità dell’opera. C’è infatti da dire che gli errori, in questo prodotto, sono almeno tanti quanti i pregi indiscussi, e che una critica lucida deve certamente tenere conto di tutto. Di certo siamo al cospetto di un prodotto che ha fatto parlare di sé anche per la sua carica simbolica e occulta.

Ritorno a Twin Peaks

Ebbene sì, sto rivedendo vedendo per la prima volta le primissime stagioni di Twin Peaks. Non ci crederete, ma all’epoca (1990-91) proprio non le vidi, per ragioni del tutto congiunturali legate alla ricezione dei canali che in Italia le trasmettevano.

Iconica immagine dell’iconico telefilm.

Il prodotto è (ovviamente) tra i più interessanti; segna uno spartiacque importantissimo nella storia delle serie televisive, nel senso che quasi tutto ciò che è stato prodotto in seguito risente pesantemente — ho avuto modo di constatarlo anche direttamente — della lezione narrativa di questo gioiello della letteratura mediatica popolare.

Lo schema narrativo di base sembra semplice. Un investigatore esterno viene chiamato a indagare su fatti accaduti in una cittadina isolata, che progressivamente, in seguito all’indagine, rivela tratti sempre più misteriosi. Quante volte abbiamo sentito roba del genere? Tante, no? Tantissime. Tuttavia questo schema viene utilizzato per scopi che vanno oltre la mera narrazione di una vicenda oscura e misteriosa.

Ho cercato di elencare alcuni di questi scopi, ovvero alcuni tra gli elementi che spiccano per originalità e stranezza in questa serie, giustamente salutata come cult:

  • Alcuni personaggi della cittadina di Twin Peaks sono oggettivamente grotteschi, fino al limite del soprannaturale. Tuttavia anche l’investigatore, sia pure in una dimensione molto più limpida e quasi infantile nella sua schiettezza, porge caratteristiche piuttosto strane: risolve enigmi utilizzando i sogni, si dichiara spesso depositario di poteri occulti, è ossessionato dalla regione del Tibet, e via discorrendo… In qualche misura, sembra che sia stato condotto in quei luoghi da una sorta di richiamo ancestrale.
  • Gli elementi lineari della trama (risoluzione del caso) vengono abilmente mescolati con aspetti molto più circolari e autoreferenziali, che vedono nei singoli personaggi vere e proprie funzioni psicologiche, tipiche delle narrazioni popolari televisive di consumo. Più precisamente, la narrazione appare in moltissimi punti come gigantesca soap opera, spesso anche parodistica e con elementi al limite della comicità, che utilizza l’indagine di base come pretesto e motore dell’azione di personaggi sempre più assurdi e surreali.
  • Determinate sequenze introducono elementi e aspetti del tutto indecifrabili, ovvero simbolici, oppure colpi di scena estremamente criptici, che giungono a citare anche atteggiamenti della cinematografia d’avanguardia.
  • La musica (Badalamenti) svolge un ruolo di primaria importanza. Concepita come novero di pochissimi e specifici temi conduttori — tra cui quello, celeberrimo e iconico, dei titoli di testa — punteggia la pellicola con caratterizzazioni molto precise: si riconoscono un tema passionale e struggente, un tema minimalistico e oscuro di due sole note per i momenti particolarmente misteriosi, e uno swing lento stile anni Cinquanta che sembra commentare le gesta particolarmente perverse di alcuni personaggi.
  • Ricorrono con particolare frequenza alcuni elementi piuttosto freudiani. In primis, il cibo, soprattutto caffè lungo, dolci (specie ciambelle), oppure formaggi e affettati a denotare in certi casi la perversione di alcuni uomini d’affari dalla doppia vita. Quanto alla pulsione sessuale, essa indugia spesso su dinamiche precise: i rapporti extraconiugali, la promiscuità, le relazioni tra individui con forte differenza i età, nonché alcuni riferimenti all’incesto. Altri simboli degni di nota fanno riferimento all’abbondanza di animali impagliati, ai rapporti con delegazioni di affaristi scandinavi, islandesi o comunque nordici, e alla dicotomia tra fuoco e follia (da notare che negli anni delle due prime stagioni fu anche girato un film, sorta di prequel alla serie, dall’eloquente sottotitolo Fire Walk With Me).

Dovendo dare un giudizio complessivo dell’operazione culturale compiuta con quest’opera, chiaramente sintetizzando procedure e metodologie narrative che per essere analizzate accuratamente richiederebbero ore e fiumi d’inchiostro, posso dire che siamo al cospetto di un prodotto che funziona come uno scandaglio di misteri. Il vero “mostro”, in questa serie, non si identifica tanto in questo o quel personaggio, ma nella cittadina di Twin Peaks in quanto tale, concepita come organismo formato da tanti organismi interconnessi. La grande intuizione è stata quella di fondere questa idea di base con uno stile narrativo attinto a piene mani dal linguaggio seriale delle telenovelas anni Ottanta, con elementi sperimentali e carichi di mistero.

Per approfondire, leggi anche questo mio articolo. Contiene considerazioni su aspetti esoterici e stilistici, sempre riferiti a Twin Peaks.

Delle Investigazioni Occulte

Mi sono deciso ad acquistare, sia pure in formato Kindle, la prima trilogia di Dresden Files, che ho conosciuto attraverso la mediazione della serie televisiva omonima e che da tempo desideravo leggere anche nel loro originario formato letterario. Debbo dire che lo stile di Jim Butcher mi piace. Fonde urban fantasy e hard-boiled all’americana in modo fantastico, arguto, ironico, deliziosamente scorrevole.

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Il mio prossimo libro in cantiere per la lettura sarà certamente legato alle stesse atmosfere, ma in una dimensione più classica: parlo del John Silence di Algernon Blackwood. Ho infatti voglia di approfondire la tematica e le atmosfere associabili al topos letterario dell’investigatore dell’occulto, un argomento che evidentemente ha illustri predecessori, e si è dimostrato tra i più battuti nella produzione di genere da ormai due secoli a questa parte.

Ma questa, come hanno detto altrove, è un’altra storia…

Sguardi Generazionali e Hacking

Su Amazon Prime ci siamo visti Wargames (1983). Film interessante, che ha la bellezza di quarant’anni esatti e parla di argomenti ancora attuali. A proposito di attacchi hacker, credo sappiate che mi occupo professionalmente anche di questo. Dai uno sguardo alla nostra CALL TO ACTION! A me piace molto. Sintetica, semplice, diretta, un po’ old style come piace a noi della Generation X.

A proposito di cose generazionali, il mio amico Marco Crotta, noto guru della cryptosfera, ha espresso un’opinione molto interessante su questa pellicola.

Salmone Bulloni e Soda Caustica: ovvero il Caso “Creators – the Past” e cosa può insegnarci

Di solito preferisco parlare di ciò che mi piace, e molto difficilmente di ciò che non mi piace. A meno che non si tratti di un articolo che decido di scrivere funzionalmente contro qualcosa, per ragioni che ritengo evidentemente sostenibili e opportune, mi sembra infatti piuttosto inutile dedicare parole a ciò che non merita attenzione, sottraendole indirettamente a quello che invece vale la spesa del mio tempo.

In questo caso, però, farò una doverosa eccezione.

Non amo gli eccessivi preamboli, ma qui sono necessari. Strettamente necessari.

Per quel che mi riguarda, il cinema nella sua più ampia accezione si divide in due grandi categorie: (1) grandi classici e (2) film recenti (che magari, chissà, un domani potranno rientrare a vario titolo nei grandi classici, ma ora come ora sono semplicemente quello che passa il convento). Spiegherò di seguito cosa intendo.

Grandi classici

Quelli che chiamo “grandi classici” sono i film della memoria personale e collettiva, che io non limito solo ai capolavori di Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick, Steven Spielberg e chi per loro, visto che la lista sarebbe comunque lunga, ma anche a tante, tantissime altre produzioni che bene o male sono entrate nel nostro, o almeno nel mio immaginario estetico di riferimento.

Parlo dei dei mystery anni Trenta, dei muti di Buster Keaton e dei loro immediati successori “sonori” con Stanlio e Ollio, ma anche dei film con Bud Spencer e Terence Hill, così come dei thriller dal sapore argentiano, dei so bad is so good dell’exploitation sixties e seventies, aggiungendo anche i kolossal “peplum”, le commedie con Banfi e Vitali, Celentano, Pozzetto, Villaggio, tornando poi indietro al grande cinema italiano interpretato da mostri sacri come Manfredi e Gassmann, passando per una gamma infinita di gradazioni dai fumettoni di Fellini a Blade Runner, da Tim Burton a John Carpenter, e così via, in una lista ancora più lunga e soprattutto eterogenea.

Questi numerosissimi film, attenzione, non sono assolutamente tutti belli.

Ci possono essere film bellissimi che ti intrattengono con una storia intrigante e film brutti che ti fanno riflettere, film trash che ti strappano una risata o porgono una qualche logica anche fascinosa (voluta o non voluta, si pensi a case di produzione deliberatamente trash come la cara vecchia Troma o la più attuale Asylum), film sciocchi e infantili che però riescono a restituirti un sapore d’altri tempi e una relativa nostalgia; oppure film cult, film cioè che de facto hanno segnato un’epoca, film che testimoniano ambienti e stili, profumi e atteggiamenti, culture, idee. Insomma, c’è di tutto, e deve esserci di tutto. Potremmo dire, in sintesi: capolavori euclidei e non euclidei.

Film recenti

Dall’altro lato, ovviamente a meno di ripescaggi singolari nel novero di cui sopra, che a volte ti capita di incrociare senza particolari ricerche deliberate anche nel cosiddetto mainstream, ci sono invece i film più vicini a noi, ossia quelli che ormai comunemente vengono proposti al pubblico attraverso celebri piattaforme streaming come Netflix e Amazon Prime.

Che si tratti di un prodotto appena uscito o di dieci anni fa, poco importa. Si parla in questo caso di tipologie di film (o di serie televisive) che vediamo ormai praticamente ogni giorno, e che a livello di gradimento posso per quel che mi riguarda ormai inserire in una casistica percentuale definita, che a spanne suona così:

  • 10% – assoluti capolavori, o comunque film che mi sono piaciuti parecchio;
  • 40% – film divertenti, ben fatti, con buone idee estetiche e una realizzazione tale da far passare allo spettatore un’ora e mezza di ottimo intrattenimento;
  • 30% – film girati in modo decente, che si lasciano guardare però in modo distratto, avendo dei difetti che non permettono loro di superare la soglia del puro riempitivo del tempo libero;
  • 20% – film oggettivamente brutti, girati male, con una brutta regia e in generale idee brutte o realizzate in modo inefficace.

Cos’è un film?

Ora, indipendentemente dall’insieme di riferimento, qualsiasi film può essere giudicato, più o meno oggettivamente o soggettivamente, nei modi più disparati. Ma resta un fatto: stiamo parlando sempre di film.

Per definire un film credo sia utile chiarire cosa non è un film.

Supponiamo di prendere un piatto da tavola. Supponiamo di metterci dentro salmone affumicato, crema pasticcera, bulloni, soda caustica, marmellata di fragole, detersivo da bucato, caponata pugliese, crema di cioccolata, cemento e silicone. Possiamo definire questo piatto una ricetta? Evidentemente no. Eppure sta in un piatto da portata, esattamente come le ricette degli chef stellati.

Abbiamo capito dunque che non tutto quello che metti in un piatto è una ricetta.

Faccio inoltre notare che nel mio esempio ho usato sia elementi che, se messi insieme, pur essendo commestibili restituiscono comunque chiaramente un connubio improponibile, che non può essere una ricetta degna di questo nome, sia oggetti e sostanze non commestibili, che a maggior ragione avvalorano quanto un’accozzaglia di cose prese a caso non possa dirsi ricetta culinaria solo perché sta in un piatto.

Questo banalissimo ragionamento, mutatis mutandis, ci fa capire una cosa: che un film, brutto o bello che sia, per definirsi “film” deve avere delle caratteristiche, esattamente come una ricetta, buona o cattiva che sia, per essere “ricetta” deve averne altre.

Il “caso” Creators – The Past

Recentemente, nel circuito Prime Video, ho avuto modo di visionare una produzione del 2019 intitolata Creators – The Past.

Ho cercato di guardarlo tutto, ma inizialmente non ci sono riuscito. Poi però, stordito dall’esperienza, ma deciso a continuarla fino in fondo, ho preso fiato e sono arrivato fino alla fine.

Non starò qui a elencare la sequenza di recensioni che ho trovato, banalmente, su YouTube, tutte sostanzialmente concordi nell’affermare quanto tale produzione sia con tutta probabilità una delle cose più orrende mai realizzate da mano umana.

Ma qui c’è un punto che ci tengo a precisare da subito, soprattutto alla luce della lunga e probabilmente noiosa premessa che sono stato costretto a farvi trangugiare prima di dare un giudizio.

Questo NON è un film. Punto, fine, stop.

Come detto, un film, qualsiasi film, può essere bello o brutto, fatto bene o fatto male, guardabile o inguardabile… Ma resta sempre un film. Nel caso di Creators – The Past siamo invece al cospetto di qualcosa che francamente non riesco a comprendere come possa essere anche solo annoverabile tra le fattispecie esistenti.

La “trama” (chiamiamola così) la trovate espressa ovunque, quindi non mi prendo la briga di spiegarvela, anche perché credo non possa neppure essere spiegata. Basti dire che si riduce a un delirio casuale, scritto coi piedi e per giunta pieno di buchi, glissati e aporie, avente a che fare con civiltà aliene, complotti, religioni, sorti della razza umana, cryptoarcheologia, senza capo né coda.

Ma il problema non è tanto la trama, chiaramente ricavata da una pappa informe di note teorie rese celebri dalla satira di Maurizio Crozza nel suo Kazzenger. Il problema non è il cameo di Mauro Biglino, nota figura facente parte del grande circo web dei seguaci delle teorie della genetica aliena, nella parte di sé stesso durante un TG. Il problema non è la triste volontà propagandistica del regista, un certo Zaia, la cui megalomania del tutto immotivata renderebbe desiderabile alla regia pure l’omonimo governatore del Veneto. Il problema non è un’attrice caucasica a nome Eleonora Fani (pure lei nota instagrammer o tiktoker a sfondo sciamanico-cabalistico-ufologico) truccata da donna, o dea, o marziana, inspiegabilmente di etnia africana.

Il problema vero è che questo “film che film non è” risulta essere, all’atto della mera fruizione, una sequenza caotica e urtante di audiovisivi montati senza alcun collegamento logico e stilistico, ovvero un montaggio di immagini colorate in movimento che non producono nulla a parte il puro e sterile fastidio.

Ecco dunque tornare la metafora della ricetta.

Questo, attenzione, non è un film d’avanguardia o di sperimentazione, come potrebbero essere le “tele cinematografiche” di artisti come Jeff Keen e simili. Non lo è perché dietro non esiste alcun genio, alcun autore, alcun pensiero. Niente di niente. Solo la volontà di spendere dei soldi per incollare parti che non stanno insieme.

Immaginate una sequenza tratta da Don Matteo. Unitela a un tutorial di qualche software di grafica computerizzata dedicata all’editing video, fatta male, ambientata in un mondo parallelo o in un pianeta sconosciuto. Collegatela a un servizio di Uno Mattina sul carnevale di Ivrea. Procedete con una sequenza di scene del tutto incomprensibili composte da oggetti in movimento, inquadrature inutili, e andate avanti così per tutta la durata della (chiamiamola) pellicola. Ecco, questo è Creators – The Past: un’operazione che a questo punto io spero sia stata dettata dalla volontà di riciclare del denaro sporco.

A questo punto mi chiedo tante cose. Chi ha potuto produrre questa roba? Chi ha potuto ingaggiare nomi come Depardieu e Shatner, infliggendo loro questo tiro mancino a danno della loro carriera? Come è possibile che vengano anche solo immaginati dei riconoscimenti (li ho letti su Wikipedia) a tale obbrobrio?

Sul serio. Al cospetto di questa roba la laurea albanese del Trota suona come un Nobel.

Ora, attorno a questa “cosa” (che appunto non chiamerei mai film) se ne stanno dicendo parecchie, specie ora che, dopo un lungo e a mio avviso meritatissimo oblio, è ricomparsa in un circuito come Amazon Prime, certamente per ricavarne qualcosa in termini di pure risate.

Tra le varie, gira la voce che la produzione sia costata dieci milioni di euro. Un’affermazione che però io ritengo totalmente artefatta, visto che nessun produttore al mondo consegnerebbe nelle mani di un perfetto sconosciuto come il tale Zaia di cui sopra una siffatta cifra per girare un film. Sta di fatto, che all’epoca della sua uscita è stato un flop totale (ma guarda un po’), ed è riuscito a incassare circa duecentimila euro (cifra che a mio avviso continua ad essere un furto).

Ebbene, che vi posso dire? Cosa possiamo imparare da questa vicenda?

Io posso dire solo questo. Il nostro presente non è semplicemente pieno di insidie e caos; esso stesso è il caos, e, come spesso mi capita di dire, la realtà ha superato abbondantemente la fantasia, visto che i veri “creatori” esistono, e sono ahimé tra noi.

Cosa creano? Perdonate la schiettezza, ma creano le “due palle così” che vi farete se avrete il coraggio di visionare questa robaccia dal primo all’ultimo secondo.

Questo blog si candida volontario per ricevere i vostri sfoghi.

Goo Goo Monster Muck Mash

Di Wednesday, serie certamente ben fatta, anche se per i miei gusti un tantino troppo da psicodramma adolescenziale, mi resta più che altro la grande curiosità relativa alla band The Cramps, la cui Goo Goo Muck è stata utilizzata per la nota danza tormentone di Mercoledì.

A latere, mi ricorda ovviamente moltissimo la celebre festa di Halloween della prima stagione di Sabrina. Credo che le somiglianze musicali con Monster Mash siano evidenti.

Comunque, la curiosità di cui sopra mi ha spinto ad approfondire questa band “tra Settanta e (soprattutto) Ottanta (ma non solo)”, di cui mi sto ascoltando questo Psychedelic Jungle (1981). Lo chiamano psychobilly.

https://www.youtube.com/watch?v=7TR9_a3mc7c&t=321s

Yerba Mate Amanda

Una delle mie ultimissime abitudini in tema di tisane. Si tratta della più celebre bevanda latinoamericana, lo yerba mate, in questo caso prodotta da questo brand Amanda che ho acquistato su Amazon.

L’infusione per ora la implemento con semplici bustine. Per la più complessa preparazione tramite bombilla mi prenderò del tempo.

Un dettaglio romantico. Ho tratto questa nuova passione ricordando alcuni fotogrammi dell’illuminata serie televisiva Mozart in the Jungle.