Appunti per un Diritto alla Creatività

Per quanto il tema possa sembrare banale, per non dire addirittura contaminato da una retorica di fondo, credo che una sua trattazione sistematica e approfondita possa riservare molte più sorprese del previsto.

Ossia, è piuttosto evidente quanto pochi siano quelli che si svegliano la mattina anteponendo un auspicio del genere ai pensieri su inflazione, strade dissestate, costo della benzina e dei libri scolastici, bollette e via discorrendo. Ma credo nonostante tutto che un’idea di “diritto” al creare, nell’accezione che andremo a precisare di seguito, sia centrale e opportuna per una serie di ragioni molto eloquenti.

Definizioni di creatività

Se per creatività intendiamo banalmente il lavoro di artisti, musicisti, pittori, scenografi, scrittori e affini, allora il confinamento alla sfera professionale svilisce certamente la mia argomentazione, in quanto è evidente quanto tali campi possano costituire direttamente l’oggetto di un lavoro retribuito, disciplinato da contratti e affini. D’altra parte, se qualcuno scrive poesie o dipinge paesaggi per il proprio piacere personale, è altrettanto evidente quanto questo stesso piacere costituisca certamente un valore difendibile, ma non certo un diritto inalienabile e di fondamentale importanza.

Se invece parliamo della creatività come facoltà generale di pensare in modo alternativo, di risolvere problemi complessi, di ampliare l’orizzonte, di vedere meglio la realtà e di individuare vie inedite per lo sviluppo di idee, allora la questione diventa più vasta, e arriva a toccare ambiti sociali, filosofici, psicologici e civili che giustificano il mio assunto iniziale.

Esiste quindi una questione aperta sul diritto alla creatività, inteso evidentemente come diritto potenziale che in questo nostro mondo apparentemente così aperto e multicolore viene di fatto negato con efficacia censoria che ha dell’incredibile. Questione aperta, ma sotterranea e invisibile.

L’idea di spaziotempo

Per quel che mi riguarda, io penso che l’aspetto fondamentale per giudicare l’assenza del diritto alla creatività sia profondamente legato non già al comune tema del “tempo negato” all’individuo, per effetto di coercizioni dirette e indirette derivanti dal mercato del lavoro e dalle moderne schiavitù imposte da forme di iper-competizione ormai riprodotte ovunque, ma allo “spaziotempo negato”, cioè a un insieme di tempo, luogo e qualità degli stessi per esercitare prassi che in mancanza vengono a risultare alla stregua di diritti negati, sia pure indirettamente.

Lo spaziotempo necessario alla creatività altro non è che un tempo sufficientemente omogeneo e uniforme che si svolge in un luogo “idoneo”, ossia dotato delle caratteristiche minime per svolgere un lavoro creativo. Dico “minime” perché non è assolutamente detto che una scrivania d’oro zecchino sia migliore di una normale tavola di legno posta su due cavalletti, né che la scrittura su carta avoriata con stilografica di lusso possa garantire una qualità creativa più elevata di quella garantita da una risma di buona carta da fotocopie e una penna a sfera.

Per “qualità” e “idoneità” dello spaziotempo mi riferisco invece a una dinamica molto più sottile, che cercherò di descrivere con un esempio concreto.

Supponiamo che io sia un manager che si trova nella suite di un grande albergo a cinque stelle, con a disposizione praticamente tutto quello che serve per rilassarsi, leggere, scrivere, guardare una serie TV o un film. Supponiamo anche che io stia attendendo una telefonata molto importante, sulla base della quale potrò capire se avrò modo di continuare il mio lavoro di sempre, oppure se sarò licenziato in tronco. Supponiamo anche che questa telefonata debba arrivarmi durante la giornata. Passa un’ora, e non arriva. Passano due ore, tre ore, e ancora si fa attendere. Arriva il pomeriggio, e niente, il telefono non squilla. Così fino a sera, minuto dopo minuto.

A questo punto qualcuno potrebbe molto superficialmente dire: “Caspita, di cosa ti lamenti. Non hai fatto nulla tutto il giorno. Avresti potuto leggere, scrivere, guardarti un film, e invece hai passato tutto questo tempo a girarti i pollici.”

Ebbene, ha senso questa affermazione? Dal punto di vista strettamente (e stupidamente) “formale” ha purtroppo senso, in quanto sì, è vero, io per tutto il tempo non ho fatto “formalmente” nulla, pur avendo la possibilità “formale” di fare quello che dice il qualcuno di cui sopra.

Ma sul piano “sostanziale” io ho fatto eccome qualcosa: ho passato un intero giorno ad attendere ansiosamente una telefonata che non arrivava mai. Avrei potuto leggere, scrivere, guardare la TV? Sì, ma con che clima interiore? Possiamo pensare che questa attesa che “formalmente” individua un lungo tempo passato senza fare nulla sia anche “sostanzialmente” idonea alla creatività?

Questo esempio spiega chiaramente cosa io intenda per “qualità dello spaziotempo” come alveo naturale per lo svolgimento di un lavoro creativo.

Spiace dirlo, ma gli impegni, le responsabilità, i figli, i genitori anziani, i problemi di lavoro, le mille preoccupazioni della vita frenetica sono oggettivamente un fattore di abbassamento della qualità dello spaziotempo, ovvero della sua idoneità al lavoro creativo.

Come spero ovvio, e a scanso di equivoci, non sto dicendo che la vita possa essere priva di questi fattori, né che si possa ragionevolmente immaginare di avere a disposizione quindici o sedici ore giornaliere per esercitare non professionalmente la propria creatività. A questo mondo tutti noi siamo chiamati a lavorare, a sacrificarci, a opporre resistenza a una serie di innumerevoli ostacoli e asperità, ed è evidente che nessuno di noi può pretendere di farne a meno senza incorrere in scelte il cui radicalismo può veramente non valere la candela.

Tuttavia il nostro mondo sta andando un tantino oltre questa ragionevolezza. La frenesia, le incomprensioni, le aporie e le contraddizioni rese aspre dai conflitti e dalle fazioni che ogni giorno si fronteggiano nella Grande Rete così come nella famiglia, nelle comunità e nei luoghi di lavoro, e non da ultimo una crisi economica e sociale “di sistema” nella quale sembra veramente che tutti debbano essere contro tutti, sono tutti fattori che ci stanno sottraendo ogni forma di qualità e di idoneità da dedicare ad azioni che sono tutt’altro che puro ozio.

La creatività: il come e il perché

Semplificando all’ennesimo grado, io credo che le attività creative che permettono di generare valore entro “congrue e idonee porzioni di spaziotempo” siano sostanzialmente due:

  1. La fase creativo-percettiva, con fruizione opportunamente tranquilla e indisturbata di libri, film, opere musicali, ma anche corsi, seminari, tutorial e qualsiasi altro stimolo passivo che possa generare potenziali ispirazioni.
  2. La fase creativo-fattiva, ossia la generazione attiva di idee, scritti, opere, soluzioni, implementazioni aventi appunto a che fare con la traduzione della componente divergente del punto uno in output innovativo, utile, pregevole e in grado di migliorare la nostra vita e quella altrui.

Intendiamoci, per implementare queste due fasi serve ovviamente del tempo, ovvero dello spaziotempo di qualità che possa dirsi al riparo dalle continue richieste di mogli e mariti, figli e figlie, genitori, colleghi, seccatori e via discorrendo. Ma non stiamo parlando di chissà che soggiorni vacanzieri nell’isola che non c’è.

Un lavoro creativo di altissima qualità può svolgersi tranquillamente lungo tre o quattro ore a settimana. Basta solo che in queste ore non ci sia nulla che possa disturbarci a parte il gatto che vuole le sue crocchette.

Pensiero Visuale e Decadenza Editoriale

Il pensiero visuale ci permette di cogliere sfumature che hanno anche a che fare con la storia della cultura. Da questo punto di vista, un esempio che letteralmente mi ossessiona è quello legato a un testo romanzesco divenuto ormai un classico.

La prima edizione del libro Il Pendolo di Foucault è a mio avviso estremamente istruttiva, specie se letta visualmente in relazione alle altre copertine che sono state utilizzate, negli anni, per confezionare questa opera narrativa nelle sue successive edizioni.

Cosa vediamo in questa prima versione? Ciò che vediamo è un primo piano della Tout Eiffel, proposta in un’elaborazione grafica (o fotografica, la cosa non è chiara, ed è un bene sia così) molto diversa dalle raffigurazioni stile cartolina che di solito siamo abituati ad associare ai monumenti nazionali di così plateale valenza iconica. L’immagine è in negativo, fondo scuro blu notte, netto, vibrante, in piena contrapposizione con l’azzurro delle volte metalliche, contemplate da un punto di vista ravvicinato, per non dire adiacente. L’immagine è sintetica e misteriosa. Non racconta nulla. Si limita a fotografare una sensazione.

Ebbene, questa sensazione indotta è per quel che mi riguarda la più fedele al romanzo di tutte quelle che sono venute dopo, a riprova del fatto che — ecco la valenza culturale del pensiero visuale — l’editoria dei tempi seguenti è andata via via decadendo verso pose e atteggiamenti sempre più banali.

Ma andiamo con ordine. Perché questa immagine è così attinente alla narrazione? Senza fare particolari spoiler (cosa peraltro impossibile per un romanzo fiume come questo), basti dire che la raffigurazione ravvicinata della Tour Eiffel si riferisce esplicitamente a una scena. Riassumendo, un personaggio chiave, peraltro anche voce narrante in prima persona dell’intero romanzo, si trova a Parigi, nel pieno di un fuga da qualcuno che ha commesso qualcosa. L’atmosfera è febbrile, concitata, in quanto la mente del fuggitivo è letteralmente ricolma di simboli, teorie, congetture, che fanno capo a Parigi come centro nevralgico di una congiura secolare. Il mondo frenetico appare come rappresentazione di qualcosa che i più non riescono, ovvero non possono vedere e comprendere. Ecco quindi che l’apparizione improvvisa della torre metallica, sotto la quale avviene parte della fuga, suscita nel protagonista un cortocircuito mentale attraverso il quale comincia a intravedere un senso nel caos: il monumento è in realtà una gigantesca antenna, un mostro di viti e bulloni, in grado di cogliere le energie telluriche e di rispedirle altrove per colpire e distruggere, controllare la materia e il pensiero a distanza, imporre il predominio sul mondo per effetto di una vendetta radicata nella storia.

Siamo al cospetto, quindi, di una perfetta sintesi grafica, che in un secondo, a livello subliminale, illustra il romanzo nel suo cuore tematico.

Cosa accade nella versione economica del medesimo testo? L’immagine, intendiamoci, è ancora molto attinente alla narrazione, ma riporta un insieme di simbologie e mappe circolari — rosoni, mandala, tavole sefirotiche — che illustrano e restituiscono all’osservatore un unico termine e fenomenologia: l’esoterismo di ogni ordine, grado, latitudine ed epoca storica.

Immagine evocativa, intendiamoci, e certamente opportuna. Ma che sarebbe stata ugualmente adatta anche per accompagnare un testo effettivamente esoterico, di natura e funzione puramente saggistica o storica: una storia della magia, o un vero e proprio manuale del novello apprendista stregone moderno.

Siamo circa a un lustro dalla prima edizione, e già l’editoria italiana punta ad una grafica più diretta e autoreferenziale, con un tono esplicito che si mantiene sempre sull’estrema raffinatezza — quelle ruote occulte che affiorano dal buio, porgendo simbologie e viraggi di colore dal freddo al caldo, sono oggettivamente sublimi — ma certamente si lascia alle spalle l’intellettualismo sottile del passato. I tempi, insomma, stanno cambiando. lentamente ma inesorabilmente.

Arriviamo quindi all’ultima iconografia illustrativa, sfruttata sia dalle ultime edizioni note, sia da quella per così dire definitiva, approdata anche alla casa editrice voluta, tra gli altri, dallo stesso Umberto Eco, La Nave di Teseo.

Qui la banalità espositiva regna sovrana. Vediamo una semplice foto aerea di Parigi, con un gargoyle oscuro che osserva un punto imprecisato dell’orizzonte. Qualche “simpatico” schema esoterico buttato qua e là ammiccava al contenuto nelle passate edizioni Bompiani, ma nell’ultima anche queste aggiunte scompaiono; rimane una piatta foto in bianco e nero, anonima e contemporanea, molto più simile al post di un mediocre fotografo amatoriale che alla copertina di un capolavoro letterario della modernità.

Siamo in definitiva passati dalla sottigliezza dell’intelletto alle risate registrate, o se preferite agli applausi comandati da un deficiente che si sbraccia in uno studio televisivo.

La mia dissertazione finisce qui, visto che mi pare non ci sia molto da dire, se non rimarcare quanto la nostra acutezza visiva e intellettuale si sia negli anni dispersa nel nulla, provincializzata, ribassata in un mercato che ormai non ha più nulla da dire, e cerca di piazzare anche la grandezza del classico in modalità volgari o comunque non all’altezza dell’originale.

Riflessioni sull’Oblìo Stratificato

La funzione intellettuale, ci pensavo oggi, di fatto non esiste più. Non esiste in quanto interessata da un processo di esclusione iniziato ormai svariati anni fa, tramite un meccanismo di oblìo stratificato oggi definitivo. Ergo, un nuovo intellettuale deve sorgere come araba fenice dai residuati del pregresso. Un intellettuale evidentemente avulso dalla (essa stessa) scomparsa editoria cartacea, per esempio; per non parlare di un servizio pubblico che ormai assume la forma di un vero e proprio disservizio pubblico. La piazza pubblica ormai non esiste. Non ha orecchie per ascoltare, e questo scenario di menefreghismo al quadrato è più che mai teatro di potenziali sfide creative interessantissime.

L’intellettuale del presente, così come quello del futuro, innanzitutto non si chiamerà più intellettuale. Lo vedrei, al contrario, come gestore di intelletti altrui. Gli strumenti della modernità caotica saranno imprescindibili, ma dovranno essere riformulati per un uso in grado di veicolare memorie e idee del passato. Credo che molto dell’atteggiamento euristico debba essere tratto da una coltre polymath rappresentata da autori eclettici: Austin Kleon, Brian Eno, John Zorn, roba così… Gente che necessariamente lavora (più o meno consapevolmente, visto il rizoma infinito di connessioni che ciascuno di questi autori porta con sé) con quella che Edward De Bono chiamava creatività seria.

Ci penserò…

Lettura Contesto Spaziotempo Percezione

Più che comprare libri dovremmo comprare lo spaziotempo necessario per leggerli.

Ci penso sempre di più. L’ho detto, e lo ripeto: la questione è a monte, e non riguarda solo la prassi della cara vecchia lettura. Pure la contemplazione filmica, o musicale (e la contemplazione in genere), segue la stessa logica. A mancare è il tempo e la sua necessaria qualità minimale. Espressione che può anche estendersi allo spaziotempo. Ossia, manca ormai un quadro circostante atto ad accogliere il gesto.

Il tempo nudo e crudo è minacciato da interruzioni in potenza e in atto. Si tratta, cioè, di un tempo di bassa qualità. Possiamo avere a disposizione l’oggetto del desiderio, quale esso sia. Ma ci sfugge il contesto che ne accoglie la fruizione.

La falsa libertà abbonda; quella vera, che sarebbe bastata e avanzata anche in quantità molto esigue, manca invece completamente. Ne segue una sorta di distrazione basale che confonde ogni percezione. Ossia, abituarsi a considerare reali le risate registrate significa non capire più le battute che fanno ridere sul serio.

Privacy e Poteri

Il mio alter ego ha annotato alcune considerazioni in materia di privacy e dintorni. In pratica le stesse che io stesso ho sintetizzato su Twitter/X. Il tutto si riassume a mio avviso in una preminenza del tema del potere, che spesso viene confuso con altre cose: diritti, anonimato, cybersecurity, facoltà di fare quel che si vuole, e via discorrendo lungo l’interminabile sequenza degli equivoci alimentati dalla grande rete e dalla grande confusione.

Siete deboli. Potete solo nascondervi, e allora vi nascondete, spacciando questa prassi come la conquista di un potere che in realtà non esiste. Ossia, esiste nella misura di un contenimento, visto che è chiaro che se state in Kuwait potete solo nascondervi e nulla più. Ma la logica è la stessa anche in zone più libere e democratiche, dove comunque i vari Grandi Fratelli (non necessariamente lo Stato, ma anche le lobby, il boss di turno, o più in generale il sistema del potere) possono aggredire indirettamente, pignorare, far valere il loro potere d’acquisto orientato ad godere di ottimi avvocati, o giudici corrotti, o altre connivenze sotterranee.

Quindi sì, giusto nascondersi, ma a volte serve orientarsi verso atteggiamenti effettivamente più lungimiranti. Serve cioè utilizzare strumenti che permettano di avere potere sul maggior numero di contesti necessari all’esistenza in un certo spaziotempo.

Bitcoin fa sicuramente parte di questo novero. Non risolve tutto, ma se ben usato risolve molto, e in gran parte vi permette di cercare meno di scappare dal vampiro di turno, avendo la possibilità di affrontarlo direttamente.

Minimo Memorandum su Privacy e Dintorni

Se il Grande Fratello è potente, ha certamente senso nascondersi, ovvero allontanarsi dal suo campo di influenza e coercizione per non essere visti. Ma avrebbe molto più senso sottrargli quel potere, ovvero utilizzare strumenti che permettano di essere più potenti di lui.

Dietro la grande necessità di privacy che ormai dilaga, e che ci impone comportamenti sempre più paranoici, si nasconde una fenomenologia ben più vasta, alla quale non facciamo mai caso. Parliamo dello squilibrio di potere tra noi e ciò che sta là fuori.

Se dietro la porta c’è un vampiro con poteri soprannaturali, è ovvio che quella porta deve restare chiusa, ed è ancora più ovvia la buona prassi di evitare qualsiasi comportamento che possa far sapere al vampiro dove abitiamo. Ma non sarebbe infinitamente meglio, logicamente laddove possibile, conquistare dei poteri superiori a quelli del vampiro?

Ovviamente, nella realtà, vale la solita aurea via di mezzo, visto che se da un lato è chiaro che non saremo mai potenti come il Grande Fratello che ci domina e comanda, dall’altro lato esistono tecnologie in grado di renderci almeno molto resilienti alle sue eventuali incursioni.

Sul Digital Detox 2.0

Come sintetizzo in questo mio post su Mastodon, io non credo molto nella prassi del cosiddetto digital detox. O meglio, ci credo, ma nella misura di una limitazione parziale della prepotenza indiretta del Web nei nostri confronti.

La Grande Rete esiste, così come esistono la globalizzazione, la deriva politica, l’intelligenza artificiale che crea immagini brutte e standardizzate, il pensiero unico che diventa sempre più unico, la mediocrità al potere, e via discorrendo. Possiamo farci qualcosa? No. Possiamo difenderci? Tendenzialmente sì.

Personalmente sono impegnato nel Web quasi costantemente, quindi è ovvio che la mia percezione possa essere traviata dal flusso costante di informazioni gestite da altri, per scopi che sono quasi sempre commerciali, autocelebrativi, propagandistici e di certo non conformi a quello che sono e che voglio.

Però c’è un modo molto semplice di gestire il Web in modo tale da renderlo simile a noi. Basta rimanere consapevoli del fatto che il Web non è la realtà.

Il Web mima una parte della realtà. Propone dettagli, deforma messaggi e contenuti, impone le sue dicotomie. Però il Web è anche informazione indipendente, decentralizzazione, fediverso… Basta scegliere, isolando ciò che ci piace di meno.

Ho chiamato questa prassi Digital Detox 2.0, ovvero un uso selettivo del Web, basato su ciò che ci interessa e sulle connessioni che intendiamo privilegiare rispetto al caos infotelematico che necessariamente resterà tale e quale.

Mi sembra una bella idea. In materia ho dato anche qualche consiglio.

C’è Fantasy e Fantasy

brown wooden signage on brown tree trunk

A volerla dire con una perifrasi, si potrebbe intendere la nostra epoca come tripudio di un atteggiamento di iper-semplificazione dicotomica che, a fronte di un’oggettiva esplosione della complessità di ogni ordine, grado e latitudine, propone come soluzione non già, come si dovrebbe, una serie di strumenti per abbassare il grado della complessità stessa, bensì una polarizzazione radicale e assolutamente acritica che si perde il classico bambino coi panni sporchi. In sostanza, oggi come oggi il pensiero unico vuole o tutto nero o tutto bianco.

Ecco dunque le cazzate di ogni giorno… Se sei contro Trump sei a favore della Harris. Se non ti convince la woke-culture sei fascista. Se sei contro un’adesione incondizionata al Partito Democratico sei un sostenitore delle destre populiste. Se metti in discussione il contante sei uno sporco comunista che vuole tassare tutto perché invidioso. E via discorrendo, lungo l’infinita gamma di — appunto — cazzate che contraddistinguono la versione di chi o ha un quoziente intellettivo troppo basso per ragionare su una realtà sfumata e a colori, oppure è più banalmente in malafede, e monetizza il caos attraverso meccanismi di varia natura.

Ho fatto questa premessa per parlare in realtà (anche se solo apparentemente) di tutt’altro: nello specifico, pensate un po’ quanto il volo sembri pindarico, della letteratura fantasy.

La ragione è legata all’aver da poco concluso la seconda stagione di una recente serie televisiva, Gli Anelli del Potere, derivata dal classico romanzo “di culto” Il Signore degli Anelli, a sua volta portato al cinema con la celeberrima trilogia di vent’anni fa, concludendo per quel che mi riguarda una sola cosa: a parte l’originale libresco, che non ho mai letto (fatemi causa), ma che di certo sarà un capolavoro (e vi assicuro che non ho alcun motivo “letterario o intellettuale” per dubitarne), l’intero corpus di opere cinematografiche fino ad oggi derivate dall’universo tolkieniano mi appare come la quintessenza della noia più assoluta.

Già i film di Peter Jackson non sono mai riuscito a digerirli. Lenti, lentissimi, immobili, con paesaggi banali, colori banali (verde acqua e muschio, terra, legno, pietra e cielo azzurro… fine della storia) diluiti in paesaggi senza alcun elemento di originalità. E poi quelle razze, esse stesse di una banalità e (diciamocelo chiaramente) bruttezza assoluta… Per non parlare della storia: una serie di anelli che (1) hanno poteri magici che da soli basterebbero a distruggere una galassia e (2) agiscono sulla mente e sul corpo del possessore solamente se quest’ultimo li tiene appiccicati a sé; ma ha senso tutto questo?

Insomma, veniamo al dunque. Oggi come oggi, riferendosi anche alla sola parola fantasy, nessuno, dico nessuno oserebbe fare un nome diverso da quello di Tolkien, riferendo l’intero genere alle sole sue elucubrazioni sul tema delle mitologie norrene e delle — ribadisco, e nessuno si senta offeso — noiosissime vicende di personaggi ora fastidiosamente bruttarelli, ora fastidiosamente bellocci, ora di una banalità disarmante. Mi viene da dire, se proprio vogliamo parlare di tradizioni, che era molto più originale il Medioevo italico tratteggiato in Brancaleone alle Crociate! Al più il “nostro” fantasy potrebbe spingersi ad altri successi al botteghino, tipo Harry Potter e vari suoi cloni.

A latere: Trovo interessante e istruttivo il fatto che un dark fantasy come il ciclo della Torre Nera di Stephen King non sia ancora stato tradotto in una saga filmica, se non per un (giustamente) dimenticato filmino (del tutto avulso dall’originale storia kinghiana) che di fatto conferma la regola: qui vogliamo solo fantasy a base di orchi e nani…

Tuttavia il fantasy è stato un genere incredibilmente fertile, e battuto da una miriade di autori che nulla avevano a che fare con le scolorite e pallide atmosfere wagneriane aventi a che fare con cavalieri puri di cuore e altre derivate arturiane, che nel dettato di Tolkien — o almeno, del Tolkien volgarizzato in immagini in movimento — assumono una valenza così totalizzante da assumere la caratterizzazione di un monoideismo quasi sconcertante, oltre che, appunto, inefficace e noioso. Cioè: una certa vocazione alla semplificazione e al sistematico oblio ha oggi come oggi letteralmente cancellato, censurato, occultato, fatto fuori e dimenticato autori che nella mia infanzia e adolescenza riempivano letteralmente i cataloghi di case editrici del calibro di Fanucci e Nord, per non parlare della stessa Mondadori.

L’edizione tascabile del 1991

Un esempio che mi piace citare è questo interessante romanzetto (di cui trovate alcune dettagliate informazioni in questo link), che si intitola Il Viaggio di Hiero, e che mi capitò tra le mani quando appunto fu ripubblicato da Fanucci — che lo aveva già fatto uscire nel 1976 — in una conturbante collana di fiammanti tascabili, nell’ormai lontanissimo 1991 (ero poco più che quindicenne). L’autore è un certo Sterling E. Lanier, nome ovviamente quasi sconosciuto, esattamente come restano praticamente sconosciuti tantissimi altri autori, come ovvio quasi tutti statunitensi, che però ebbero modo di giungere fino a noi in Italia durante tutti gli anni Settanta e Ottanta, fino appunto a quasi un decennio dopo.

Alcuni di loro — cioè degli appartenenti a questa sorta di grande cenacolo yankee della letteratura di genere fiorita nel secondo dopoguerra — sono ricordati ancora oggi, come, che so, un Philip Josè Farmer o un Fritz Leiber, ma tantissimi altri sono annoverabili nel grande oceano delle meteore. Eppure l’interezza della loro opera ha costituito l’ossatura di un fantasy veramente originale, diverso, colorato, esuberante e intellettualmente vivace.

Tornando al romanzo di cui sopra, non starò logicamente a raccontarvi la trama, anche perché in tutta sincerità la ricordo solo per sommi capi. Basti dire però che il viaggio del titolo si inoltrava in uno scenario da “dopo catastrofe”, dove tra animali mutati e senzienti, telepatie, foreste pluviali e incontri stranianti, il protagonista giungeva a recuperare un oggetto risalente a quella che per lui era la preistoria: sto parlando di un computer!

Insomma, con questo esempio del tutto banale mi premeva farvi capire come questi ultimi trent’anni siano sostanzialmente passati a dimenticare tutto, e a semplificare fino all’inverosimile quel poco che rimaneva: il gusto, la letteratura, il cinema, la politica, il pensiero, le idee… Tutto… Anche l’immaginario ne risulta sconvolto, ovvero semplificato in dicotomie, oltre che disarmanti, anche false (basti pensare a termini ormai svuotati di ogni senso sia filosofico che storico, come Destra e Sinistra, ridotti a slogan da analfabeti funzionali).

Disgregazione della Decentralizzazione

La mia “tesi”, da qualche settimana a questa parte, non è tanto una tesi quanto una banale osservazione lucida e critica dei fatti che stanno accadendo. La premessa è costituita da due mie sintesi portate avanti in due articoli: il primo commenta, confutandole, alcune estensioni al mondo occidentale che il ben noto commentatore crypto Rikki deriva da sue altre considerazioni — queste sì, assolutamente esatte e direi pure illuminanti — su quello orientale circa l’adozione di Bitcoin; il secondo puntualizza altre idee espresse da Giacomo Zucco, che sembrano vere sulla carta, ma nella realtà lo sono in parte.

Mi permetto di tornare su queste due confutazioni non già, come peraltro ho ben rimarcato, per sminuire l’evidente esperienza e stimabilità di questi due illustri commentatori e addetti ai lavori, quanto per sottolineare una tendenza che a mio avviso è largamente sottovalutata, o almeno ben poco affiorante nel dibattito pubblico su Bitcoin: parlo, senza tanti mezzi termini, della totale finanziarizzazione del satoshi, inteso ormai come “oro digitale” da comprare e conservare come tesoretto personale in vista di una sua rivalutazione e conseguente cash-out futuro.

Il tema della decentralizzazione — cuore pulsante della teoria e del protocollo di Satoshi Nakamoto, inteso come base di una nuova economia delle transazioni — è praticamente scomparso dai radar, e al suo posto ha lasciato un generico riferimento alla non pignorabilità del tesoretto di cui sopra.

Siamo cioè alla disquisizione su aspetti puramente patrimoniali (grandezze stock), e non economici (grandezze flusso), come se il Sistema avesse manipolato e acutamente dirottato altrove tutta la vera discussione in tema di Bitcoin: nuovo standard, economia circolare, appunto decentralizzazione, libertà, moneta deflativa, etc…

Recente mia interpretazione nel fumetto “Perfect Day”, dove mi sbizzarrisco in storielle estemporanee.

Mi verrebbe da dire: dove siete finiti? Ossia, a che punto siamo con la rivoluzione? Ci accontentiamo di questa versione masticata e sputata fuori dai vari BlackRock di turno, oppure intendiamo procedere con proposte e implementazioni?

Io, nel mio microbico, la parte del vero bitcoiner la faccio. Ho dirottato la mia associazione verso idee e posture metodologiche assolutamente “cypher”, mi occupo di divulgazione e formazione per orangepillare il maggior numero di persone che posso, e via discorrendo. Ma qualcuno dovrebbe anche politicamente prendere la parola. In Europa avanzano legislazioni fatte da chi di Bitcoin non sa un bel nulla, si sta preparando una sperimentazione dell’euro digitale che verrà somministrata a una cittadinanza senza alcuna formazione e capacità di scorgere opportunità e minacce di questa nuova e per molti versi nebulosa tecnologia, e nel frattempo, come sapete, fioccano gli arresti e le coercizioni a danno di professionisti colpevoli solo di aver garantito privacy e sicurezza nei loro prodotti tecnologici e informatici.

Dobbiamo ancora restare a guardare o abbiamo intenzione di muoverci, di organizzarci, di definire alternative a questo stato di cose?

Dove Trovate (Anche) la Parte Politica di Me

La Seconda Repubblica è stata il regno del malaffare non già per l’abilità del criminale, ma per l’inerzia della guardia.

Filippo Albertin, La Sintesi Prospettica del Post-Populismo Italiano

In generale, non amo parlare di politica. Non amo parlarne, ma sono costretto a parlarne per ovvia mia immersione in un mondo che è anche politica.

In generale, ho deciso di concentrare tutti i miei discorsi politici su Listed. Quindi, sapete dove trovarli.

https://listed.to/@filippoalbertin