Bollettino Politico a (Quasi) Due Anni dall’Insediamento di Questo Governo

(Non scrivo molto di politica, ma se ne scrivo, ne scrivo su Listed. In ogni caso, questo che stai leggendo è un post che parla di politica.)

In materia politica, ovvero nel descrivere le dinamiche in corso in questa nostra Italia, possiamo analizzare giorno dopo giorno tutto quello che accade: dichiarazioni, posizioni, siparietti, inchieste, e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia la lettura oggettiva — e soprattutto sensata in termini di effettiva utilità — di quanto accade non può prescindere da una radicale sintesi, ovvero la capacità di vedere non già l’inutile dettaglio, ma lo scenario globale che si è venuto a determinare.

L’orizzonte temporale è a mio avviso molto preciso, e fa chiaro riferimento a quanto accaduto dalla pandemia in poi.

L’apice del “voto populista” si registra alle elezioni del 2018, dove i partiti che affiorano prepotentemente sono la Lega di Salvini e il Movimento 5 Stelle, all’epoca ancora rappresentato da “nomenclature sotto l’egida del grillismo”.

Subito dopo parte l’era dei mandati di Giuseppe Conte, che nella sua prima parte non registra sostanzialmente alcun cambiamento in termini di successo. La stessa Lega salviniana, alle europee di un anno dopo rispetto all’insediamento, arriva a prendere addirittura il 36% dei consensi, di fatto attestandosi come primo partito populista in Italia.

Cosa accade dopo? Semplice: accade la pandemia, che di fatto ribalta completamente il quadro del voto. La Lega perde improvvisamente — lo si vedrà in modo chiaro alle nazionali di fine 2022 — oltre il 70% del suo consenso, e il Movimento 5 Stelle passa complessivamente dal 30% delle nazionali del 2018 a un 15% circa.

Ad avvantaggiarsi di tale dinamica è ovviamente, e in modo puramente congiunturale, l’unico partito populista che ancora non aveva avallato le (a mio avviso) giustissime, ma oggettivamente scomode politiche di contenimento pandemico: parliamo di Giorgia Meloni e del suo Fratelli d’Italia, che di fatto assorbe quasi tutto il voto che fu della Lega.

Dal mio punto di vista, l’analisi potrebbe tranquillamente fermarsi qui, visto che ad oggi non è intervenuta alcuna fattispecie confrontabile alla pandemia che possa dirsi tale da indebolire il consendo di FdI. Certo, ci sono decine e decine di incoerenze, promesse gettate alle ortiche, voltafaccia in sede europea, e via discorrendo. Ma si tratta di noccioline, diciamocelo chiaramente, rispetto a quelle che oggettivamente sono state le conseguenze (ribadisco, a mio avviso necessarie) della pandemia e delle contromisure ad essa relative in materia di economia diffusa.

La mia personale opinione è che questo governo non arriverà a fine mandato, ma tale probabile interruzione non sarà certo dovuta a dinamiche messe in atto dall’opposizione parlamentare. La crisi politica — qualora tale da tradursi in crisi di governo, cosa comunque, lo premetto, tutta da dimostrare — può evidenziarsi solo all’interno di un centrodestra oggi chiaramente dissestato e a conduzione unica.

Se è vero infatti che il potere può essere un ottimo collante per saldare amicizie non proprio schiette, è anche vero che lo stesso potere può essere motore di invidie interne che, opportunamente sollecitate, possono sfociare in congiure del tutto inedite.

Appunti sull’Apocalisse

Tempo fa, proprio a Vicenza, dove oggi abito ma all’epoca non abitavo, ho conosciuto una certa ragazza che si faceva chiamare Reginazabo, e che all’epoca gestiva un B&B a tema steampunk (tale Ada Lab, in onore alla prima donna informatica della storia, tale Ada Lovelace), dove animava — anche in collaborazione con altri progetti ora limitrofi, ora nazionali — numerosi eventi di stampo alternativo e underground: proiezioni cinematografiche, laboratori di autoproduzione (fanzine, arte, serigrafia, modellazione e stampa tridimensionale), incontri con consumazione di cibo vegano, conferenze e altre cose — mi si perdoni il termine certamente troppo riassuntivo — abbondantemente fricchettone.

Di Reginazabo, il cui nome reale mi è stato sempre sconosciuto, e di tutti i suoi progetti, non rimane praticamente alcuna traccia nel web, se non alcuni riferimenti puramente nominali in link che conducono a domini in vendita e pagine vuote. Ma Reginazabo compare ufficialmente come traduttrice di un libro che a suo tempo ha goduto di una certa circolazione e relativo interesse. Parlo di Guida Steampunk per l’Apocalisse (2008), di tale Margaret Killjoy, attivista statunitense che nonostante il nome femminile è (anche se non a tutti gli effetti, vista la collocazione in un campo sessuale oggettivamente fluido) un autore maschile, pure lui abbastanza chiaramente (o almeno molto probabilmente) celato dietro quello che potremmo definire un suggestivo nickname.

La casa (cabinet) autocostruita da Margaret Killjoy nei boschi degli Appalachi.

Ebbene, perché mi è venuta in mente questa mia frequentazione di almeno una buona dozzina d’anni fa? La ragione è semplice: il ritorno di una certa cultura apocalittica, connessa all’idea di un tracollo totale del sistema finanziario, economico, sociale, ecologico e antropico su scala più o meno planetaria.

Intendiamoci. Gli statunitensi nutrono da decenni queste velleità da catastrofe imminente che li costringa a sopravvivere in remote regioni del deserto, o dell’Alaska, armati solo di tende, picozze e gadget tipici del DIY (Do It Yourself) di carattere estremo. Ma nel caso del testo di Margaret Killjoy, che potete peraltro (ormai) scaricare gratuitamente dal sito del progetto editoriale che all’epoca lo stampò, il tono generale si allontana notevolmente dalla retorica del comune neo-yankee di New York o Los Angeles. Siamo al cospetto di una vera e propria opera narrativa sotto forma di creative nonfiction. Una modalità che, ripeto, a distanza di svariati anni, oggi mi connette ad altre idee e altri personaggi, molto meno radicali di Killjoy, ma non meno inquietanti (anche se sapienti, simpatici, e pure amici).

Per esempio, in questo video ascolto il “priore” Giacomo Zucco, simpaticamente intervistato da Marco Costanza, mentre si lascia scappare l’esistenza di una sua riserva aurea fisica alternativa a quello che abbiamo imparato ormai tutti a riconoscere come oro digitale, materia che — dico io — dovrebbe essere a dir poco una sua personale religione, nonché l’asset su tutti preferibile per investire nel lungo termine.

Ebbene, da dove deriva questo orientamento alla fisicità del mezzo che dovrà salvarti? Sulla base di quale costrutto mentale qualcuno immagina un mondo senza elettricità e connessione web? Ma soprattutto, sulla base di quale perversione mentale qualcuno può anche solo ipotizzare che l’assenza di questi meccanismi di base possano essere anche solo lontanamente compatibili con una qualsiasi idea di sopravvivenza del genere umano?

Io ho una risposta, e la risposta è subdola e psicologica. Ha a che fare con l’individualismo, ossia l’edonistica immaginazione di un assetto globale che ti possa far vivere da ricco sfondato, in una villa immersa nel verdeggiante panorama di un’isola (magari paradiso fiscale), senza bisogno di società, politica, media, e via discorrendo, o con l’idea che queste cose possano comunque esistere anche senza gente che ci lavora.

Ovviamente siamo al cospetto di un’utopia. Ma tale utopia è talmente suffragata da iconografie diffuse, modelli e illustrazioni da stereotipo AI-based che a un certo punto la parte cosciente inizia a crederci, ad allestire sistemi, impalcature, to do list, atte a costruire il mondo che vorremmo. Con un problema che però si pone, che è quello della parte subcosciente e subliminale, che si ribella, che si tormenta, e alla fine ti viene a dire che no, devi per forza avere un piano alternativo, e questo piano, ancora più folle dell’utopia che l’ha suscitato, dovrà essere a base di cose materiali, che si toccano e che possano funzionare anche senza pagare la bolletta.

Ebbene, io vi dico che questa cosa è impensabile. L’apocalisse a cui pensa Margaret Killjoy non arriverà mai, e non arriverà mai neppure il paradiso di Satoshi Nakamoto, e nemmeno la catastrofe che Zucco vorrebbe arginare a colpi di lingotti d’oro. Primo, perché non ci sarà alcun motivo di aggrapparsi all’oro fisico. Secondo, perché l’oro fisico non avrebbe alcuna possibilità di arginare lo scenario immaginato come sfondo della sua azione di salvagente.

Perché noi siamo già dentro l’apocalisse, e gli zombie sono qui, tra noi, attivi come non mai, agenti in qualità di catatonico oceano ingaggiato per eleggere Tizio e Sempronio alle urne. Oppure ragazzine impegnate in improbabili reel TikTok e Instagram per generare traffico fingendosi animatrici sessuali nomadi, o fuffaguru in grado di farti diventare milionario in pochi secondi, o supporter del governo pagati un tanto a twit, il tutto immerso nel magma rovente delle telefonate indesiderate, degli scammer nigeriani, dei principi Faza3 from Dubai che ti concedono il loro amore per un obolo in satoshi.

Non serve aspettare: l’apocalisse ha il volto sorridente di una startup finanziata per non ottenere dopo due anni neppure un euro di fatturato, avendone spesi 100K, ovvero di uno studente che non può permettersi l’affitto per studiare a Milano, ma sfoggia l’ultimo modello di iPhone.

Corruzione e Distruzione della Memoria

In questo articolo ho preso ad esempio il “caso” del finale del film Il Ritorno dello Jedi (1983) per parlare di corruzione. Sulla cosa ho riflettuto parecchio, e, imbattendomi in quest’altro articolo del Blog di Beppe Grillo, debbo dire che c’è una forte vicinanza tra i due concetti: corruzione e distruzione della memoria. L’articolo in questione parla di un romanzo che appunto rende la metafora attraverso la storia di un’isola dove gli abitanti, dimenticando, di fatto fanno sparire non solo la memoria, ma anche le cose. Cito direttamente le conclusioni:

L’idea del libro si presta ad una esatta analogia con il nostro presente. Oggi, le cose scompaiono incessantemente senza che neppure ce ne rendiamo conto. E scompaiono i ricordi, scompare la memoria, per la quale ci distinguiamo dagli animali. La proliferazione di oggetti ci illude, simulando un’abbondanza che non esiste. Ed è la nostra immersione nell’era della comunicazione e dell’informazione a far svanire le cose. Le informazioni, considerate “non-cose”, si ergono davanti agli oggetti, facendoli gradualmente svanire. Viviamo in un mondo in cui il predominio dell’informazione viene scambiato per libertà.

Mi trovo evidentemente molto in linea con questa descrizione, e a riprova di questo non posso fare a meno di citare l’esperienza diretta.

Io sono nato nella perfetta metà degli anni Settanta. La televisione del servizio pubblico che ho conosciuto da bambino e da adolescente — per intenderci, fino agli anni di Tangentopoli — era qualcosa di radicalmente diverso rispetto a quella attuale. Questo non significa assolutamente che non ci fosse pubblicità. Anzi, la pubblicità era onnipresente pure allora. Eppure accadeva qualcosa che ormai da anni non riscontro più.

I contenuti sia narrativi e cinematografici che documentaristici proposti nella RAI dell’epoca coprivano tranquillamente non solo il presente, ma anche il passato prossimo e remoto della produzione mondiale. In altre parole, noi ragazzini potevamo guardare tanto un film della citata serie classica di Guerre Stellari quanto uno di Stanley Kubrick, passando per le comiche di Stanlio e Ollio e arrivando ai classici di Alfred Hitchcock. La RAI dell’epoca per molti anni trasmise per esempio molti film dal vero prodotti dalla Walt Disney lungo tutto il secondo dopoguerra, nonché versioni restaurate dei mystery americani anni Trenta, per non parlare logicamente delle pellicole di Totò e della commedia all’italiana degli anni Sessanta. Oltre a questo abbondavano ovviamente gli sceneggiati del passato e del presente, le produzioni di genere fantastico, il tutto cacciato a forza in un poliedrico calderone che come ovvio annoverava anche i varietà — che all’epoca venivano firmati da autentici geni, come Enzo Trapani — e le tribune politiche (quando la politica esisteva e veniva fatta dai politici, non dalle veline), i programmi di pubblica utilità e quelli espressamente dedicati ai giovani e giovanissimi.

In altre parole, quella era una televisione che faceva servizio pubblico attraverso una fedele conservazione e riproposizione della memoria.

Ciò che accade oggi è l’esatto contrario, e avviene sulla base di due dinamiche compresenti e speculari: da un lato la vera e propria censura della memoria, che si traduce in una sua effettiva assenza dai palinsesti; dall’altro lato la manipolazione della parte puramente “nominale” della memoria, per proporre intollerabili semplificazioni, deformazioni e usi impropri della stessa.

Riassumendo, la nostra storia o e taciuta, o e raccontata in modo sommario, per non dire falsificante. Non mi stupisce dunque il dilagante revisionismo, la presenza di cariche pubbliche che disertano le feste della Repubblica, per non parlare della decadenza ormai decennale del nostro paese e del suo sistema economico, culturale e istituzionale.

L’Arte nel Regno di Eris (un prologo)

La mia opinione in materia è facilmente sintetizzabile in una domanda: Che arte può esistere in un mondo in cui non esiste “spaziotempo” per l’arte stessa? Mi spiego meglio… Il tutto si può comprendere identificando le due fenomenologie parallele in conflitto che caratterizzano il problema.

La prima è la sempre più risicata disponibilità di un luogo in cui l’arte possa avere una funzione. Ricordiamo a grandi linee ciò che disse Italo Calvino sui classici. Un classico — cito a memoria e logicamente sintetizzo, ma il succo è questo — altro non è che un’opera d’arte che non finisce mai di dire quello che ha da dire; ossia, un’opera che ha senso leggere e rileggere per un tempo indefinito. Ebbene, esiste oggi un’opera contemporanea che possa godere di un orizzonte temporale di questo genere?

Lo vediamo nel web: tutto è rapido, ovvero istantaneo, autoconclusivo, basato su linguaggi memetici, giudicato unicamente sull’effetto immediato, sulle reazioni che suscita al momento, indipendentemente dalla profondità o dalla funzione nel tempo a venire. Può esistere arte in grado di assurgere a “classico” in questo contesto caotico? La risposta, secondo me, è negativa, nel senso che anche ciò che affiora dovrà in qualche modalità perversa obbedire alla logica del contesto nel quale è affiorato.

Neppure i grandi autori, ormai, sfornano opere destinate a diventare dei classici, o comunque prodotti con una funzione ulteriore alla vendita di una copertina con un nome sopra. L’intero mercato dell’arte è diventato il colossale scenario di una concorrenza dell’usa e getta.

La seconda riguarda, paradossalmente, il sempre più elevato numero di “aspiranti artisti” che acquistano corsi e corsetti per fingere a sé stessi di avere un qualche talento da vendere. Un talento che però rimane confinato al mercato di cui sopra, fatto al più di compitini per casa che somigliano tanto all’output di catene di montaggio che, guarda caso, si chiamano proprio talent show.

In definitiva, ci sono troppi autori in uno spazio sempre meno frequentato da fruitori, e la risultante può essere solo vincolata alla legge dei grandissimi numeri in aree del pianeta come l’Asia o gli Stati Uniti.

Ecco perché secondo me deve per forza sorgere una nuova forma d’arte, costruita in modo tale da essere “sensatamente fruibile” nel mondo della discordia e del caos, ovvero — per usare una metafora classica abbondantemente ripresa dalle narrative discordiane — nel regno di Eris.

Un Post per Tutti e per Nessuno

Per me bloggare significa disseminare enigmi spazzatura che nessuno può decifrare. Ha a che fare con la logica discordiana. L’ipertesto è la sua arma: una spiegazione che rimanda ad libitum ad altre spiegazioni; un’indagine che — un po’ come nelle telenovelas — propone una versione e poi la getta alle ortiche, per ricominciare il gioco di affabulazione che è la rappresentazione. In questo labirinto, ovviamente, dissemino anche inviti, eventi, occasioni che sta al lettore cogliere. Faccio autopromozione assemblando cose, insomma.

Una semplicissima citazione di istruzioni che stanno altrove, attraverso collegamenti vari. Dico cose che solo io posso capire. Se poi le capisce anche il lettore, meglio per lui.

Su Felini e Affini

Quello verso i felini è per me un amore di vecchia data, nato per ragioni misteriose durante l’infanzia, scomparso durante l’adolescenza e la prima giovinezza, e infine rinato grazie a mia moglie. I gatti che oggi mi accompagnano rappresentano quindi enigmi lontani, figli delle sensazioni di un bambino immerso nella provincia veneta degli anni Ottanta, e alimentano la volontà di riscoprire quei mondi anche nel caos offensivo e insopportabile del presente.

Se dicessi di non preferire un certo gatto rispetto a un altro direi una bugia. Per quel che mi riguarda, prediligo i gatti tigrati europei dalle tonalità argentee, stranamente snobbati dai più, forse per la loro elevata diffusione, oppure quelli uniformemente neri o grigi. Ma queste considerazioni su gusti personali ed estetiche lasciano il tempo che trovano, visto che l’amore per un gatto può nascere sia a prima vista, sia, nel tempo di una convivenza, per questioni legati a storie comuni e affinità. Insomma, siamo sempre al cospetto di un mistero.

Di mistero – e di sogni – parlava anche William Burroughs nel suo “The Cat Inside”, dove si autodefiniva Il Guardiano, custode di gatti e loro protettore. Una definizione interessante e cruciale, che condivido in pieno nonostante la mia ovvia distanza dal grande e discusso scrittore statunitense.

Condivido coi felini una proverbiale pigrizia, promossa certamente dal fastidio che provo di fronte alla dilagante idiozia di gran parte del genere umano. In altre parole, più la mediocrità degli uomini tocca il mio sguardo, più aspiro a trasformarmi definitivamente in un gatto.

Stato dell’Essere e Creatività

Riporto di seguito un mio scritto personale, da tempo nel cassetto digitale…

Ciascuno di noi si trova in uno “stato”, ossia in una configurazione dinamica di azioni quotidiane, possibilità e impossibilità, coercizioni, potenzialità, abilità, che compaiono sostanzialmente identiche giorno dopo giorno, e che più o meno lentamente evolvono verso “stati” temporalmente contigui.

Il concetto di “stato” è ovviamente e fortemente legato alle condizioni economiche, sociali e lavorative che caratterizzano la nostra vita. Non per niente si parla di “status sociale”, utilizzando una parola di diretta derivazione.

Il concetto operativo e concreto di “stato” individua due affermazioni immediatamente conseguenti: la prima è che noi “compiamo azioni all’interno del nostro stato”, e la seconda è che “ciò che facciamo è inevitabilmente legato e conforme al nostro stato”, ovvero può esistere solo se coerente col medesimo.

Due esempi per capire cosa intendo sono presto detti, ma il secondo presenterà una questione piuttosto interessante da valutare.

Il primo: Indipendentemente da quelli che possono essere i miei gusti personali in materia di automobili, io non guido un Ferrari Testarossa per il semplice fatto che il mio “stato” non mi permette di acquistare e mantenere un’auto così lussuosa. L’auto che posso permettermi di guidare è coerente col mio “stato”, ed è evidentemente un’utilitaria.

Il secondo: Il mio “stato” può permettermi di acquistare e leggere un libro. Ma questo libro, che evidentemente leggerò “nel mio stato”, ossia non già all’interno di una suite d’hotel categoria lusso a Londra, ma con tutta probabilità al parco, o nel salotto di casa, perché lo sto leggendo? Semplicemente per intrattenermi o imparare qualcosa che posso esercitare “nel mio stato”, oppure per passare dal mio stato attuale a un altro stato?

In questo dilemma c’è tutta la difficoltà interpretativa tipica del dare un senso a quello che facciamo, ossia nello scegliere in modo lucido e attendibile tra due estremi: da un lato il fare le cose solo per renderci migliori all’interno del nostro stato; dall’altro il farle per trasformare il nostro stato in qualcosa d’altro, ovvero in un “altro stato”, che si suppone migliore e superiore.

Logicamente, tornando al tema della creatività, le cose non sono poi così chiare. C’è chi ama sia il suo mestiere che i vari hobby che il medesimo permette di svolgere attraverso i frutti reddituali che lo accompagnano, oppure chi non sa bene perché stia facendo una certa cosa, in quanto non ha informazioni bastanti su sé stesso, o su ciò che lo circonda, o su entrambi.

Dal mio punto di vista, credo che anche in ambito creativo sia fondamentale capire dove si vuole andare ponendo in atto un certo comportamento. Sto scrivendo il mio diario personale per giungere a scrivere un romanzo, oppure lo sto scrivendo semplicemente per tenere traccia di idee e nomi che possono rivelarsi interessanti?

Anche in questo senso le azioni possono comunque fare riferimento a uno scenario molto ambiguo. Io posso per esempio iniziare qualcosa per puro divertimento o intrattenimento “all’interno del mio stato”, probabilmente ritenuto immutabile o ben poco modificabile. Questa passione potrebbe però diventare pure un mestiere, ammesso e non concesso che io cerchi questa svolta.

Per quel che mi riguarda, credo serva ragionare in modo aperto, ma nel contempo lucido. Se non cerchiamo qualcosa, può esserci anche la possibilità di trovare “ciò che non sappiamo ancora essere quello che cerchiamo”, ma è piuttosto difficile che questo avvenga. Per trovare una via dobbiamo necessariamente immaginare degli scenari che possano essere ragionevolmente adatti a noi.

In generale, serve fare esperienza, ovvero sporcarsi le mani. Difficilmente possiamo intuire la portata di un atto creativo senza averlo implementato. Quindi la pianificazione è importante, ma non vale nulla, in termini percettivi, se non si traduce in un’azione concreta dove mettiamo in gioco quello che sappiamo fare.

Società Creativa: Pure Questa Mancava

Ora, io mi considero una persona certamente propensa all’idea di cambiamento, di miglioramento, di progresso sociale, e non ho alcun problema a prendere seriamente in considerazione l’idea, che posso dire, di spesa pubblica, di investimenti sociali, di un reddito minimo, di tutele in qualche misura pubbliche dell’essere umano, nonché di soluzioni che possano anche passare attraverso idee sfidanti legati ad analoghe misure di welfare. I miei studi mi hanno insegnato una cosa: per decidere quale di due serie numeriche andrà più veloce dell’altra c’è solo un modo, e questo modo è fare i conti. Nessuna ideologia, nessun preconcetto, nessuna intuizione istintiva: solo fare i conti e vedere oggettivamente se — tornando a noi — la tal cosa si può fare o meno.

Però quando queste affermazioni cessano di essere legittimi campi di studio, e diventano slogan così ridicoli da rasentare (e superare) addirittura la “memetica” web più idiota, allora no, non penso si possa più parlare di politica, o di società, o tanto meno di intellettualismo o filantropia, ma di modalità ormai perfettamente in linea con quanto di più becero abbiamo conosciuto in questi ultimi anni: dalle teorie ufologiche al terrapiattismo, tanto per intenderci.

Sto parlando di questa nuova “cosa” che si chiama Società Creativa, sorta di indecifrabile proposta para-politica dalle simbologie vagamente massoniche, che punta a un rinnovamento “spirituale e morale” dell’umanita per molti versi del tutto condivisibile, anche se estremamente banale e già promosso in decine e decine di costituzioni e dichiarazioni da almeno un secolo ad oggi, e per molti altri così assurdo da far pensare veramente a una burla in stile esperimento sociale all’americana.

Infatti, se i fantomatici otto principi della proposta risultano, almeno astrattamente, del tutto ragionevoli e appunto largamente condivisibili da chiunque non abbia a cuore lo sterminio del genere umano, è sul piano degli obiettivi concreti che la cosa induce l’attonito lettore a procedere prima con un vago sbigottimento, poi con divertita incredulità, e infine ad affidarsi al più vicino pacchetto di kleenex per asciugarsi le lacrime dal ridere.

Ma andiamo a scorrere alcune delle semplicissime misure avanzate dai nostri:

  • Un reddito incondizionato mensile pari a dollari diecimila.
  • Centomila dollari alla nascita del primo figlio, duecentomila alla nascita del secondo, trecentomila al terzo, e così via. Siete ancora lì?
  • Alloggio abitativo e confortevole per tutti, di almeno 60 metri quadrati. Cioè, ma con diecimila euro al mese, che diventano ventimila se ho una moglie, e centomila se niente niente faccio un figlio, che bisogno ho di farmi dare la casa dall’ATER? Vado a stare in affitto in una megavilla in centro!
  • Lavorare quattro ore al giorno, quattro giorni la settimana. Anche perché, giustamente, quando caspita posso avere il tempo di spendere diecimila euro al mese se lavoro troppo?
  • Stabilità economica garantita. What?
  • Uso illimitato e gratuito delle utenze, luce, acqua, gas… Infatti diecimila euro al mese non bastano, lo sanno tutti, no?
  • Cancellazione di tutti i debiti, mutui, ipoteche. D’altra parte, con tre figli e trecentomila euro a disposizione, chi mai comprerebbe casa in contanti!

Lascio a voi le relative considerazioni, perché, a furia di ridere, a me è passata pure la voglia di ridere.