Più che comprare libri dovremmo comprare lo spaziotempo necessario per leggerli.
Ci penso sempre di più. L’ho detto, e lo ripeto: la questione è a monte, e non riguarda solo la prassi della cara vecchia lettura. Pure la contemplazione filmica, o musicale (e la contemplazione in genere), segue la stessa logica. A mancare è il tempo e la sua necessaria qualità minimale. Espressione che può anche estendersi allo spaziotempo. Ossia, manca ormai un quadro circostante atto ad accogliere il gesto.
Il tempo nudo e crudo è minacciato da interruzioni in potenza e in atto. Si tratta, cioè, di un tempo di bassa qualità. Possiamo avere a disposizione l’oggetto del desiderio, quale esso sia. Ma ci sfugge il contesto che ne accoglie la fruizione.
La falsa libertà abbonda; quella vera, che sarebbe bastata e avanzata anche in quantità molto esigue, manca invece completamente. Ne segue una sorta di distrazione basale che confonde ogni percezione. Ossia, abituarsi a considerare reali le risate registrate significa non capire più le battute che fanno ridere sul serio.
Come sintetizzo in questo mio post su Mastodon, io non credo molto nella prassi del cosiddetto digital detox. O meglio, ci credo, ma nella misura di una limitazione parziale della prepotenza indiretta del Web nei nostri confronti.
La Grande Rete esiste, così come esistono la globalizzazione, la deriva politica, l’intelligenza artificiale che crea immagini brutte e standardizzate, il pensiero unico che diventa sempre più unico, la mediocrità al potere, e via discorrendo. Possiamo farci qualcosa? No. Possiamo difenderci? Tendenzialmente sì.
Personalmente sono impegnato nel Web quasi costantemente, quindi è ovvio che la mia percezione possa essere traviata dal flusso costante di informazioni gestite da altri, per scopi che sono quasi sempre commerciali, autocelebrativi, propagandistici e di certo non conformi a quello che sono e che voglio.
Però c’è un modo molto semplice di gestire il Web in modo tale da renderlo simile a noi. Basta rimanere consapevoli del fatto che il Web non è la realtà.
Il Web mima una parte della realtà. Propone dettagli, deforma messaggi e contenuti, impone le sue dicotomie. Però il Web è anche informazione indipendente, decentralizzazione, fediverso… Basta scegliere, isolando ciò che ci piace di meno.
Ho chiamato questa prassi Digital Detox 2.0, ovvero un uso selettivo del Web, basato su ciò che ci interessa e sulle connessioni che intendiamo privilegiare rispetto al caos infotelematico che necessariamente resterà tale e quale.
Mi sembra una bella idea. In materia ho dato anche qualche consiglio.
Prenderò il tema di questo articolo un tantino alla lontana, partendo da un video che mi ha fatto molto riflettere. In sé e per sé, nel video si parla di un argomento molto specifico: le penne stilografiche. A parlarne è un grande esperto del settore, Stephen Brown, youtuber da tempo riconosciuto come autore di recensioni che sono diventate un vero e proprio punto di riferimento per gli appassionati di questo sistema di scrittura.
L’argomento del video, però, non ha a che fare con uno specifico modello di penna da descrivere, o con qualsiasi fattispecie possa essere confinata nell’angusto novero della passione verso la scrittura con pennini e inchiostri liquidi. Si parla infatti di giovanissime generazioni di fronte al puro e semplice strumento stilografico, inteso come oggetto e nulla più.
Il nostro Stephen Brown, che è anche docente (credo di psicologia), e dunque ha a che fare con studenti nati all’incirca nei primissimi anni Duemila, a un certo punto si accorge di una fattispecie che lo colpisce particolarmente. Un suo allievo, prendendo in mano una stilografica (evidentemente offerta più o meno per caso dal suo insegnante, magari durante una pausa), inizia a osservarla da tutti i lati, e, provando a usarla per scriverci qualcosa, non si sa se spontaneamente o per un invito da parte dello stesso Brown, la pone sul foglio in una posizione totalmente contraria a quella corretta.
Una banalità? Certo. Ma una banalità che colpisce l’attenzione del nostro youtuber…
Ora, non stiamo dicendo che l’allievo in questione abbia iniziato a scrivere con questa penna in modo goffo, oppure che — come assolutamente legittimo — non abbia mai provato a scrivere con una stilografica, o ancora che la scrittura con inchiostro liquido e pennino non sia fatta per lui, come per tanti altri. Stiamo invece parlando di un giovane di circa una ventina d’anni, quindi non certo un bambino, che una penna stilografica non l’ha proprio mai vista in tutta la sua vita!
Stilografiche a parte, questa considerazione ha prodotto in me il classico cortocircuito, in quanto ho iniziato a collegarla a numerose fattispecie generazionali che io stesso noto, e che io stesso posso ricostruire anche solo mentalmente facendo uno più uno, giungendo a conclusioni che a mio avviso dovrebbero farci riflettere.
Così come un ventenne oggi può non sapere minimamente cosa sia una stilografica, per il semplice fatto di aver vissuto in un sistema che non l’ha mai posto neppure per sbaglio davanti a un oggetto del genere, nello stesso modo questo giovane — occorre ribadirlo, parliamo di un uomo, non un bambino — potrebbe non aver mai visto un film di Kubrick, o di Stanlio e Ollio, o del classico Hitchcock anni Cinquanta, solo per citare alcune delle centinaia di proposte cinematografiche che da ventenne, ossia una scarsa trentina d’anni fa, io avevo già da tempo abbondantemente visionato più volte attraverso il servizio pubblico.
Attenzione, io non sto parlando di opere “alte” da preferire esclusivamente ad altre “basse”, esattamente come non sto parlando di una scrittura “nobile” che possa essere imposta come standard rispetto a quella con una penna a sfera, e ci mancherebbe. Il problema è più che mai un altro. Io, come sapete, sono un musicista uscito dal Conservatorio, eppure vi posso assicurare che durante tutta la mia infanzia e prima giovinezza ho ascoltato e amato veramente di tutto, dal rock a Chopin, dal rap a Brian Eno, da Aznavour a Beethoven, passando per Luciano Berio e David Byrne, De André, i Duran Duran, Neneh Cherry e John Zorn, fino alle sigle dei cartoni animati giapponesi, e anche in questo caso la lista potrebbe continuare a lungo. Il fatto è che queste cose le ho ascoltate in quanto mi è stato concesso di ascoltarle.
Insomma, ignorare completamente l’esistenza di una scrittura stilografica storicizzata, e magari preceduta da un’altra a base di inchiostro di china e penna d’oca, oppure non sapere minimamente dell’esistenza di un cinema mystery anni Trenta, o non aver mai visto, accanto alla trilogia di Back to the Future, anche Fright Night o Il Fantasma del Palcoscenico, solo per restare nella cinematografia e non addentrarmi nello sconfinato campo dell’editoria letteraria, io credo sia qualcosa di altamente lesivo dell’individuo e della sua capacità di vivere il suo presente in modo critico, consapevole e autonomo a livello intellettuale, estetico, morale.
La nostra sembra configurarsi sempre più come una civiltà dell’oblio comandato. Coltiviamo competenze fertili in uno scenario contestuale sempre più sterile. Abbiamo decine e decine di licei e non riusciamo a creare le premesse di un insegnamento alla vita, prima ancora che al mero lavoro. Formiamo automi catatonici, non persone. I grandi festival sono diventati talent show, la discografia segue le operazioni a tavolino condotte in vitro in format televisivi e reality. Tutto ciò che viene additato dal mainstream come “qualità” altro non è che un compitino per casa svolto diligentemente sulla base di dettami stabiliti non si sa bene da chi, forse da un’intelligenza artificiale in malafede.
Insomma, che ne sarà delle stilografiche? Verranno dimenticate? Non lo so. Sta di fatto che alle stilografiche possiamo anche rinunciare. Ma a cosa rinunceremo poi?
Vivaldi è un browser. Serve a navigare. Quindi lo utilizzerò per navigare… Nel web il collegamento è tutto, e anzi è molto di più di tutto: permette di dire senza dire, ovvero di imporre un rapporto col lettore che diventa esploratore di una mappa testuale.
Sono stato quasi tutte le vacanze natalizie chiuso in casa. Il cielo di Acquapendente ha avuto qualche sprazzo soleggiato, che abbiamo sfruttato per due aperitivi in piazza. Per il resto, pioggia e grigiume, come ora davanti alla finestra. Rami secchi, uccellini, e i suoni tipici della vegetazione carica di fredda umidità.
Il primo dell’anno è sempre, per tutti, per troppi, un richiamo a chissà quale cambiamento nella propria esistenza. Ebbene, io credo che la prospettiva sia troppo ampia. L’anno cambia, ma è ovvio che noi restiamo quelli che siamo, e che la nostra evoluzione può solo definirsi lungo la scia della tenacia giornaliera, per non dire ora per ora, minuto per minuto.
Tuttavia mi piace immaginare una nuova attenzione in grado di veicolare certi cambiamenti. Il passaggio annuale è in questo senso un’occasione stimolante, non ci sono dubbi.
Ho deciso, per esempio, di razionalizzare alcuni miei luoghi nel web, primo fra tutti Instagram, che a mio avviso dovrebbe servire a scopi più orientati e meno casuali e autoreferenziali. Interessante per esempio l’uso delle “storie”, che possono essere trasformate in immagini e utilizzate altrove.
Utilizzo il mio Mastodon Vivaldi Social come luogo dove annotare pubblicamente quello che faccio in senso creativo. Nello specifico, queste carte colorate mi stimolano. Voglio inserirle qui, collezionarle, usarle…
Non credo che utilizzerò questo blog per parlare di politica, di quella funzione ormai inutile, ovvero automatica, che soprattutto in Italia ha raggiunto livelli di alienazione dal reale degni di un romanzo distopico primonovecentesco.
Tuttavia nel mio Masstodon, ogni tanto, qualche considerazione la troverete…
Da tempo cercavo un sistema organizzativo che evitasse i device elettronici (che adoro, ma che a mio avviso non sono adatti alla scrittura organizzativa), ovvero che “nativamente” utilizzasse semplicemente carta e penna, come amo fare anche nel visual thinking.
Ho trovato questo sistema nel cosiddetto bullet journal. Ma attenzione: il sistema ricalcato tale e quale ed eseguito supinamente, è a mio avviso un tantino troppo rigido e per certi versi eccessivamente lungo da impostare. Pure un esperto in materia come Matt Ragland lo dice chiaro e tondo, anche se secondo me anche i suoi consigli possono essere ulteriormente semplificati, per una convergenza alla configurazione migliore.
Insomma, lungi dal volervi imporre un sistema, vi consiglio caldamente di seguire il mio setup, che spiegherò di seguito in modo molto circostanziato, e soprattutto motivato.
My BuJo Setup
Innanzitutto, cos’è un bullet journal?
Per quel che mi riguarda è un quaderno o taccuino che viene opportunamente impostato per essere un punto di riferimento organizzativo personale con riferimento annuale (in sostituzione di qualsiasi agenda).
Quale taccuino scegliere?
Ce ne sono molti, anche troppi. Personalmente non utilizzo né i tanto blasonati Moleskine (che a mio avviso, e secondo chiunque abbia un minimo di conoscenza della scrittura analogica e delle tipologie di carta sul mercato, sono di qualità pessima), né i certamente fantastici Leuchtturm 1917. Preferisco i taccuini “stile Moleskine” prodotti dalla AmazonBasics, che costano praticamente la metà dei Moleskine di pari formato e qualitativamente valgono almeno il triplo. Il mio standard è la versione base a righe.
Setting #1 – prima pagina a destra
La prima cosa che scrivo è l’anno di riferimento (ribadito magari anche da un’etichetta esterna), alcune informazioni sul proprietario del taccuino (lo dovessi dimenticare da qualche parte), e una rapida legenda delle icone che utilizzo per denotare il testo.
Nel mio caso la legenda è semplicissima, ma potete tranquillamente usare quella standard proposta dall’autore di questo sistema, che riporto direttamente.
Nel mio caso utilizzo una versione molto semplificata di questa che vedete. Al posto del punto, uso un cerchietto, che posso barrare con una X completa nel caso di “task completato”, oppure con un segno > nel caso il task sia stato spostato altrove (concetto importantissimo nel bullet journaling). Sia gli eventi che le annotazioni, invece, recano a inizio testo un banalissimo asterisco. Questi simboli mi bastano e mi avanzano, ma è chiaro che potete aggiungere quelli che ritenete più opportuni.
Setting #2 – l’indice
Le prime due pagine (che non sono ancora vere e proprie “pagine numerate” del taccuino) vanno utilizzate come indice, ossia come riferimento per andare a trovare gli argomenti, esattamente come in un libro. Il mio consiglio è di avere di fronte le pagine sempre “a coppie”, e di iniziare da sinistra, di modo da avere sempre due pagine aperte di fronte a noi.
Insomma, per l’indice servono (le prime) due pagine (non numerate): pagina A a sinistra e pagina B a destra.
Month Log Gennaio Febbraio Marzo Aprime Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre
Pagine dalla 29 alla [numero]
Day Log
Pagine dalla [numero+1] alla fine
Liste Speciali
Nota bene: Ci sono taccuini che hanno già le pagine numerate. Questo è ovviamente molto comodo, ma non essenziale, visto che le pagine si possono anche, come altrettanto ovvio, numerare a mano, oppure anche numerare solo per l’essenziale (fino alla 28, per intenderci).
Nel mio caso io numero solo le pagine fino alla 28, e le pagine successive (day log) le numero mentre le scrivo.
Siccome le liste speciali le tengo alla fine, parto dall’ultima pagina, come se avessi un secondo taccuino speculare.
Se le liste speciali cominciano a diventare tante, allora il consiglio è di provvedere a una qualche forma di numerazione delle stesse, riportata in indice.
Setting #3 – year log
Consta di quattro pagine perché su ciascuna vengono posti (in alto, in centro, e in basso) i nomi di tre mesi contigui, per esaurire l’intero anno. Quindi pagina 1 (sinistra) con gennaio, febbraio e marzo; pagina 2 (destra) con aprile, maggio e giugno; pagina 3 (sinistra) con luglio, agosto e settembre; e infine pagina 4 (destra) con ottobre, novembre e dicembre.
A cosa serve questo annual log? Semplicemente ad avere un luogo dove annotare i macro-progetti da svolgere nell’anno, con una razionale e ragionevole individuazione del mese di riferimento.
Nota bene: Questo spazio NON è assolutamente un’agenda dove segnare appuntamenti e “goal” mensili, ma solo un punto di riferimento per annotare quanto detto. L’agenda vera e propria sarà invece quella che vedremo tra un attimo nel month log.
Setting #4 – month log
Le pagine dalla 5 alla 28 (si veda tabella di prima) sono il cosiddetto month log, ossia lo spazio dove annotiamo (1) gli appuntamenti che devono essere svolti (come ovvio) esattamente in un tal giorno (salvo spostamenti) dello specifico mese (che vanno nella pagina a sinistra con numero dispari) e (2) i “goal” che devono essere raggiunti in quel mese, senza indicazione di giorno specifico (che vanno nella pagina a destra con numero pari).
IMPORTANTE – Io non sono solito annotare per filo e per segno, nella pagina di sinistra, tutti i giorni del mese, numero per numero, nome per nome. Mi sembra assurdo. Se devo annotare una data nei primi del mese, la annoto in alto, altrimenti, se la data è centrale o a fine del mese, verso il centro o verso il basso. Ho detto che è un sistema analogico, certo, ma un banale calendario (cartaceo o digitale che sia) credo che lo abbiamo tutti per vedere se un certo giorno è sabato, lunedì o domenica. Lo stesso dicasi per mesi con 28 o 31 giorni.
Setting #5 – day log
Dalla pagina 29, non si utilizza più la scansione “a quadranti” destro e sinistro. Potete tranquillamente scrivere di seguito, annotando la data del giorno e scrivendoci sotto tutti i task e le annotazioni che desiderate. Una pagina può tranquillamente contenere più giorni, perché ovviamente ci possono essere giorni in cui le annotazioni sono poche.
Setting #6 – liste speciali
Il bullet journal è ottimo per annotare liste speciali, ovviamente separate da tutto il resto, ma connesse e parallele. Le liste possono contenere qualsiasi cosa debba essere mappata nel tempo ed eseguita: l’andamento di una dieta, film e libri da acquistare, obiettivi da raggiungere senza specifico riferimento al mese dell’anno, etc…
Come si usa il BuJo
Farlo è molto più semplice di qualsiasi spiegazione. Quindi, faccio alcuni esempi:
Ho un appuntamento il 3 febbraio con un cliente; vado alla pagina 7, che riporta appunto gli appuntamenti da svolgere esattamente in un certo giorno del febbraio 2023, e in alto (visto che siamo i primi di febbraio) annoto un cerchietto con la data e l’ora, nonché ovviamente la descrizione dell’appuntamento. Una volta effettuato, pongo una X sul cerchietto.
Entro i primi di febbraio 2023 devo pagare la sosta comunale; vado alla pagina 6, che riporta le cose da fare “genericamente” nel mese di gennaio, e a fine pagina (visto che a me interessa che la cosa sia fatta entro i primi del mese dopo) annoto un cerchietto con la descrizione della cosa da fare. Una volta fatta, la spunto con una X, nel solito modo.
Il primo gennaio mi accorgo di aver finito il cibo del gatto; lo stesso giorno, quindi esattamente a pagina 29, sotto la data del primo gennaio, annoto un cerchietto che riporta la cosa. Se riesco a farla subito, bene, la spunto immediatamente e passo ad altro. Altrimenti, se non sono riuscito a farla il giorno stesso (cosa difficile nel mio caso, visto che la mia gatta è un ottimo promemoria… ma questa è un’altra storia) in fase di controllo giornaliero o la lascio “da fare” e la spunto (esattamente dove sta) il giorno dopo, oppure la sposto barrandola con il simbolo > ricopiandola nei task del giorno dopo, oppure altrove. (Nel mio caso preferisco lasciarla lì per barrarla il giorno dopo, visto che stiamo parlando di azioni che riguardano un intorno temporale molto limitato, ma queste sono cose legate al gusto e allo stile personale.)
Se entro maggio 2023 intendo cogliere i frutti di una nuova dieta, allora segno “nuova dieta” nella pagina year log contenente il mese di maggio (che è nel nostro caso la numero 2), con un opportuno cerchietto, e mi occupo di tenere traccia di questo proposito in una lista speciale a fine taccuino che intitolerò “dieta” che giornalmente controllerò, fino a spuntare il task di cui sopra.
Se il primo gennaio mi dicono che un mio importante cliente ha un nuovo sito, lo annoto direttamente nel day log del primo gennaio, con un asterisco. Questa informazione “tempificata” può tornarmi utile in fase di rilettura.
E via così…
Considerazioni finali
A cosa serve effettivamente il BuJo?
Essenzialmente, a gettare una volta per tutte i foglietti volanti pieni di annotazioni che verranno certamente perse, o peggio non saranno utili alla loro effettiva implementazione.
Nello specifico, il BuJo serve a concentrarsi organizzativamente utilizzando un solo strumento al posto di decine di strumenti disorganizzati e non connessi tra loro.
A cosa NON serve il BuJO?
Se il vostro task somiglia a una frase del tipo “conquistare il mondo”, oppure, più banalmente, “fare un avanzamento di carriera e guadagnare di più”, allora il BuJo può certamente permettervi di seguire questi “auspici” una volta trasformati in task eseguibili, ma di certo non può dirvi come trasformarli.
In altre parole, il BuJo serve a organizzare con facilità azioni per noi possibili e conosciute.
Insomma, può dirvi quando pagare una rata, ma non può dirvi come ottenere i soldi per pagarla.
Il consiglio è di separare nettamente la prassi organizzativa rappresentata dall’uso quotidiano del BuJo dall’elaborazione creativa che nel BuJo può essere certamente annotata come obiettivo, auspicio o progetto, ma deve necessariamente svilupparsi altrove, in taccuini dedicati appunto all’elaborazione e al pensiero approfondito.
Ieri ho passato praticamente tutta la serata ad annotare concetti musicali ispirati dalle mie ultime ricerche su La Monte Young (di cui ho indirettamente parlato) e la sua estetica musica. Ho anche trovato in rete questo articolo monografico piuttosto esaustivo, che illustra piuttosto eloquentemente l’importanza di un compositore poco conosciuto in Italia, ma letteralmente irrinunciabile nella storia delle avanguardie statunitensi del secondo dopoguerra.
Alcuni dei miei proverbiali fogli volanti.
Improvvisare come in un raga indiano su schemi accordali prefissati. Mi piace immaginare uno spazio sonoro allestito “registicamente” su queste basi: ordine e improvvisazione, forma e libertà, in un campo sonoro che si allarga verso l’infinito.
Credo che si noti. Sto dedicando vari articoli al mondo degli NFT. Solo ieri licenziavo queste tre minuscole dediche a un grande compositore americano (qui poco conosciuto). Oggi esprimo un parere più generale sulla “forma tokenizzata non fungibile” nel mio nuovissimo blog su Listed. (Peraltro, ottima piattaforma, provatela.)
La premessa di rigore a questo breve articolo è che non sono mai stato, né sono, nemico di qualsivoglia proposta radicale avanzata per risolvere questo o quel problema. La mia concretezza non sottende alcuna base reazionaria preconcetta, ma solo la volontà di convergere a soluzioni efficaci, quale che sia la loro ispirazione.
Detto questo, però, mi permetto solo due considerazioni, che a mio avviso sono l’immediato corollario a quanto detto. Le esprimo sotto forma di domanda al cospetto, appunto, di una generica proposta radicale da vagliare e giudicare.
La prima: Siamo sicuri che la tale soluzione sia effettivamente ottenibile come radicale? La seconda: Siamo sicuri che, una volta applicata, ove ovviamente fattibile, la tale soluzione sia effettivamente una soluzione che mantiene il suo radicalismo?
Dico questo perché, banalmente (ed eticamente, e filosoficamente, e intellettualmente) parlando, io credo che qualcosa di radicale debba mantenere la difendibilità di tale aggettivo sia a monte che a valle della sua realizzazione.
In rete gira da tempo una sorta di “meme” che recita circa così: Nomade digitale! Padre senatore e madre notaio.
Ossia, che il “radicalismo” di certe scelte possa essere molto discutibile credo sia evidente anche solo a un breve vaglio del ragionamento e del senso comune. Come mai coloro che “hanno rinunciato a tutto per vivere in una fattoria in Tibet” sono praticamente tutti ex top manager di multinazionali rapaci, o più banalmente figli e figlie di papy-paga? Vogliamo considerarla una vocazione francescana sorta dal nulla e col nulla costruita?
La risposta è ovviamente negativa. Senza la pecunia sonante delle liquidazioni a base di plastica, petrolio e speculazione di borsa, questi sogni dal sapore bio-green non si sarebbero mai realizzati, esattamente come non si sarebbero realizzati in assenza di capitalizzazioni pregresse che solo nel sistema e dal sistema sono state prodotte.
Ora però, facciamo pure un passo avanti, e ammettiamo pure che la soluzione radicale in questione debba essere giudicata non già dal suo pregresso, ma per quella che è.
L’esempio che vorrei portare è questo progetto di (passatemi il termine) “comune di creatori di contenuti” in Texas. Interessante? A prima vista, direi di sì. Ma ripensiamoci un attimo…
Della serie, fuggiamo, andiamo a coltivare le nostre passioni assieme a coinquilini che fanno la stessa cosa, condividiamo energie e vibrazioni a contatto con la natura… Certo, ma per fare cosa? Per isolarsi dal sistema? In che modo? Più nel dettaglio, mi si faccia capire: per chi sono i contenuti che questi vorrebbero creare? Non sono forse per lo stesso sistema che consente ai fruitori, direttamente o indirettamente, di pagarli?
Come detto, non ho nulla contro questi bei ragazzi che tra le sterpaglie dei paesaggi aperti, tipicamente statunitensi, ripercorrono le orme dei vari Thoreau della storia. Faccio però notare che Thoreau, dopo due anni passati a lottare con le formiche, abbandonò la sua casetta di legno di fronte al lago Walden e se ne tornò nel suo tanto detestato consorzio umano cittadino.
Alcuni creatori di contenuti del progetto Cabin, riuniti sullo sfondo del tipico paesaggio texano.
Io ritengo invece che la fuga dal sistema, salvo casi veramente radicali (che di certo non faranno mai notizia, e sono più spesso causati dalla necessità che dalla libera scelta), costituisca sempre una pura astrazione, che nasconde e trascina con sé una miriade di contraddizioni.
In realtà non sei uscito dal sistema. Stai solo ottimizzando i suoi frutti. Ti stai solo emancipando dallo stress che esso produce sulla vita di chi, contrariamente a te, certe cose non se le può permettere. Insomma sei sempre prigioniero, ma in una gabbia di velluto, con televisione satellitare e acqua calda. Tutto qui. Funzioni esattamente come quelle attrici e modelle femministe che fanno i soldi mostrando tette e culi su OnlyFans, per deliziare oscuri e sconosciuti occhi maschili sfruttando lo stesso immaginario patriarcale che vorrebbero, a parole, combattere nei loro profili Instagram. Oppure come quelle mogli o fidanzate del magnate del cemento, che si riempiono la bocca di cultura verde al biologico in piazza. (Ho fatto solo esempi femminili per il solo fatto che quelli maschili sarebbero almeno il doppio, quindi non mi si tacci di maschilismo. Ritengo che le donne, in generale, siano statisticamente molto più intelligenti degli uomini.)
La mia tesi è dunque che ogni “radicalismo di soluzione” debba proporsi come un salto di qualità in termini esclusivamente creativi, prodotti dentro il sistema, in grado di sfruttare a proprio esclusivo vantaggio tanto i difetti incalcolabili quanto i pochissimi pregi del sistema stesso.
Non sei radicale se spendi cinquecentomila dollari per comprare una casa ecosostenibile in Amazzonia. Sei veramente radicale se costruisci la tua indipendenza dentro la peggiore area metropolitana del paese dove vivi. Sei radicale se costruisci il tuo studio dentro un appartamento di sessanta metri quadrati, se crei arte con uno smartphone da buttare, se fai andare il televisore con un accumulatore solare da duecento euro preso da Leroy Merlin. Sei veramente radicale se riesci a vestirti come un ricco direttore di banca pur avendo comprato i vestiti al mercatino dell’usato. Non sei radicale se aderisci all’ennesimo progetto di emancipazione dai confini nazionali, per la creazione di un grande stato a base cryptovalutaria dove però la lingua è e resta l’inglese. Sei radicale se riesci a emanciparti dalla politica, a capire dove stanno i piloti automatici, a vedere che quel governo di destra neonazista in realtà farà le stesse cose di chi si professa di sinistra.
Il radicalismo vero riproduce il meccanismo del meticciamento. Basta vedere gli animali: quelli di razza pura tendono ad essere stupidi e ottusi; i bastardi, invece, restano i più reattivi, svegli e intelligenti.