Scrittura e Telescrittura: una sorta di Manifesto

Spesso, per non dire quasi sempre, mi capita di pensare al passato, al mio passato di bambino e adolescente durante tutti gli anni Ottanta e buona parte del decennio successivo. Nel pensarci, le considerazioni più ricorrenti si accompagnano a un senso di disagio nel percepire la radicale differenza tra quel mondo e il nostro mondo. Una differenza che, attenzione, non riguarda minimamente il “tempo perduto” di quelli che per ovvie ragioni, per me come per chiunque, sono anagraficamente gli anni della giovinezza confrontati con quelli della piena maturità, ma all’opposto allude propriamente a un radicale, concreto, oggettivo mutamento nella ritmica di vita, nel rapporto con la società, per non parlare di variabili come cultura, politica, ideologia ed estetica, che ritengo ormai quasi totalmente deteriorate.

In altre parole, rifletto sempre più frequentemente sulle caratteristiche che costituiscono in modo più lampante la differenza tra quei tempi e i nostri, ponendomi in fondo sempre le stesse domande. Cosa è cambiato effettivamente? Cosa c’è oggi che all’epoca non c’era? Cosa c’era che oggi non c’è?

Le sole risposte che riesco a dare riguardano il senso del contesto, che in quella che abbiamo chiamato a grandi linee Prima Repubblica era a mio avviso drasticamente meno “affollato”, e nel contempo popolato da “funzioni culturali ed estetiche” immensamente superiori a quelle attuali.

Affollamento e bassezza culturale sono, in questo senso, le cifre più salienti di questo mondo, ovvero quelle che costantemente affiorano dalle mie elucubrazioni in materia, e il disagio che provo nell’esistere al suo interno di questo scenario affollato e greve deriva credo piuttosto direttamente dalla commistione di entrambe, direi perfettamente veicolata dai nuovi sistemi telematici di comunicazione globale.

Tra le attività umane che ritengo maggiormente influenzate da queste dinamiche c’è sicuramente la scrittura, e con essa, come ovvio, tutte le sue più o meno indirette derivate: lettura, intellettualismo, editoria, giornalismo, letteratura, fino alla fattispecie stessa dell’essere autori attraverso la parola scritta.

Parlando per esperienza diretta, io sono stato tra i primi a trovarmi perfettamente a mio agio nel mondo del cosiddetto “blogging”, ossia quella prassi di tenere un diario nel web. Tuttavia quelle prime esperienze risalgono circa agli inizi anni Duemila, in un contesto in cui Internet era effettivamente una frontiera di pura espressione libera, in cui il passato più remoto incontrava unicamente i vantaggi della modernità. La scrittura, per intenderci, continuava ad essere scrittura, e non aveva ancora conosciuto le conseguenze, a mio avviso disastrose, del social networking di massa.

Oggi, nel mettermi a scrivere su carta, percepisco tutta l’inutilità di un gesto che di fatto non ha più alcun senso, se non quello di annotare la lista della spesa o i numero di telefono da chiamare durante la giornata. Hanno coniato anche un acronimo: FOMO, ossia Fear Of Missing Out, paura di perdersi qualcosa. Ma non si tratta di una pura percezione illusoria. No, la scrittura oggi come oggi non può effettivamente più prendersi il lusso di essere una prassi solitaria e concentrata, pena l’esclusione dell’individuo dal flusso ormai continuo di informazioni.

Questa forzata trasformazione della scrittura è un fatto positivo o negativo? Ovviamente la mia indole tenderebbe a scegliere la seconda risposta, visto che non ci sono dubbi su quanto io sia nostalgicamente legato a un mondo dove gli autori erano autori, i libri non venivano sfornati da ghostwriter al soldo di agenzie pubblicitarie connesse con le statistiche di gradimento del web, e gli intellettuali avevano una voce e un seguito. Tuttavia cosa accadrebbe se iniziassimo a fare le cose esattamente come le facevamo un tempo? Molto semplicemente, faremmo finta di vivere in un mondo che non esiste più, e le nostre azioni andrebbero a riprodurre l’equivalente di una triste battaglia contro i mulini a vento.

Ecco perché ritengo che quella che io chiamo ancora “scrittura” debba anche rinascere in qualcosa che ho chiamato “telescrittura”, ovvero una forma immediata e militante di scrittura pensata per un mondo liquido, immediato, denso di multimedialità e comunque ancora in grado di percepire un lavoro interessante, laddove, ovviamente, esistente.

La telescrittura non snocciola opinioni, ma descrive argomentazioni inconfutabili. Non parla di idee, ma di fatti, di progetti, di realtà oggettive. La telescrittura veicola servizi, connessioni, proposte, chiamate all’azione, incontri e progettualità: essa incarna il superpotere digitale di un intellettuale rinato nel regno della tecnologia di massa.

Senza tanti giri di parole, io la immagino come una macchina da scrivere direttamente connessa al pubblico nella sua accezione più caotica e indifferenziata.

Alla luce di queste considerazioni ho rivisto un po’ tutta la mia presenza nel web, orientandola a funzioni non più di “sostituzione” dell’opera d’arte o d’espressione, ma di “connessione” tra me e il generico pubblico, che di volta in volta può essere rappresentato tanto da fruitori quanto da colleghi, amici, partner in affari, collaboratori e nodi della mia rete.

(To be continued…)

L’autore ci tiene a sottolineare che: Questo post è stato suscitato dalla consapevolezza che agli inizi della sopraccitata Seconda Repubblica era ancora possibile sentire un intellettuale vero parlare in perfetto francese della sua seconda fatica letteraria.

Idee Preliminari sul Possibile Compbook

Intendiamoci: I miei composition book, che alcuni autori chiamano compbook, ovvero quei supporti analogici che uso mimando uno scopo paragonabile a quello della “scrittura scolastica”, non somigliano troppo a questo classico qui di fianco, che iconograficamente si associa alla scrittura più o meno creativa praticata nei campus e delle università statunitensi.

Mi piaceva però proporre un’immagine che fosse indicativa di ciò che penso nell’uscire quasi completamente dalla logica del puro visual thinking.

(A tale proposito avevo pure anticipato la cosa in un post.)

Mi sono reso conto che devo scrivere prosa su supporti grandi, almeno A4 direi. Per questo la cosa migliore sarebbe usare direttamente una risma di fogli, ma la cosa è ben poco applicabile alla necessità che ho di portarmi dietro le cose. Quindi per forza mi devo proprio rivolgere a formati “da compbook”, che di solito ruotano attorno alle proporzioni dello schema detto B.

In questo senso, adoro i prodotti della Rhodia…

Tuttavia credo che opterò per prodotti molto più semplici, che possano ricordarmi i vecchi quaderni di trenta, quarant’anni fa. Carta umile, penne a sfera, cose così…

Synthwave: un madrigale

Attraverso questo velo di suono
traspare il volto dell'amore
che io ascolto in mono.
Beatamente vibrante nel suo colore,
che è carminio e fucsia e lapislazzulo dorato,
produce una sorta di elettronico calore.
Fortemente ambrato
e dal sole di pixel delicatamente sfiorato.

Ogni tanto mi diletto con qualche forma poetica antica. Interessante l’associazione a un tema tutt’altro che antico. A mio modo, faccio il postmoderno. Ovvero il post-postmoderno.

Il Palazzo: Racconto

Nessuno sapeva chi avesse costruito il palazzo, né quando, né perché. La sua storia di vetro e cemento affondava con tutta probabilità in tonnellate di carte che giacevano in uno o più uffici del mondo di fuori. All’interno, il vuoto sovrastava abbondantemente la rada popolazione, e nessuno sembrava avere la più pallida idea di quale fosse la storia del suo vicino di stanza.

Negli androni, ogni tanto si svolgevano eventi carichi di improvvisi entusiasmi: concorsi pianistici, pranzi, riunioni, feste allietate da ghirlande di carta crespa colorata. Il caos che in un attimo si creava in una zona del palazzo veniva immediatamente neutralizzato dal silenzio che chiunque avrebbe potuto ascoltare fuggendo poco più in là, in uno snodarsi di cunicoli e nuovi vani del tutto deserti, estesi in ogni direzione. L’origine dell’acqua corrente e del costante tepore che trasudava naturalmente da ogni muro erano sconosciuti, o ignorati, anche perché ormai nessuno si sarebbe posto il problema di uscire per testare condizioni atmosferiche o logistiche alternative: il palazzo era ovunque, e il panorama grigio pallido che si poteva scrutare dalle gigantesche finestre di cui ogni cubicolo era dotato veniva ormai percepito, dopo mesi o anni di consuetudine, come una musica di sfondo, come quella che qualcuno avrebbe potuto ricordare, pur non ricordandone l’origine.

Tutti, infatti, o almeno tutti quelli che si potevano incontrare nel palazzo, erano consapevoli di un mondo che al di fuori annoverava aeroporti e sale d’attesa, scuole e ville private, monumenti e manufatti di un remoto passato la cui storia non aveva ormai alcun significato, ma era in qualche modo esistita tanto da risultare fissata almeno come scolorito archetipo nella mente di ciascuno. Eppure, nessuno arrivava a pensare che la possibile esistenza di tutte quelle cose, o solo di alcune, potesse avere un ruolo nella sua vita concreta.

Ogni divertimento e ogni riflessione, così come ogni tentativo di scovare qualcosa di nuovo e interessante, avvenivano nel palazzo: la scoperta di un vinile o di una partitura, di un computer definitivamente non funzionante, di una foto, di un quadro. Fatti e avventure si svolgevano e dissolvevano in attesa d’altro, come assorbite dal silenzio e dal buio che ogni sera accompagnava il sonno, in attesa di un nuovo giorno.

Per la Scrittura in Movimento (in Italia)

Esistono dei prodotti, essenzialmente statunitensi, che qui in Europa, ma soprattutto in Italia, arrivano molto a fatica e con maggiorazioni di prezzo oggettivamente esorbitanti e proibitive. Tra questi ci sono sicuramente i taccuini della Field Notes Brand, autentici oggetti di culto per gli amanti (come me) della scrittura analogica on the go.

Tempo fa, per averne qualcuno, mi sono rivolto al mercato britannico, che solitamente acquisisce prodotti dagli States rivendendoli a un prezzo onesto, con spese di spedizioni altrettanto ragionevoli. Nello specifico, li ho acquistati dalla Nero’s Notes, che debbo dire si è distinta per l’ottimo e cordiale servizio.

Nonostante questo, mi sono chiesto: quali possono essere le valide alternative che possano efficacemente sostituire l’esatta funzione di questi notes tascabili?

Dopo aver acquistato e testato veramente molti prodotti, sono giunto alle seguenti conclusioni, che vorrei condividere con tutti i miei lettori, specie con quelli, appunto, appassionati come me di questo genere di recensioni.

Il prodotto che in assoluto più si avvicina al classico field notes a righe tinta kraft, che vedete qui in foto, è certamente il seguente:

Taccuino slim A6 a righe grigio chiaro, della Muji

Il costo è di euro 2,75. Potrebbe sembrare elevato, ma non lo è, specialmente se consideriamo che tre taccuini Field Notes vengono in USA solitamente venduti a una decina o dozzina di dollari. La dimensione è la stessa, e la carta risulta di qualità eccelsa, anzi, addirittura superiore e fountain pen friendly.

A questo punto, visto che la stessa FNB produce una penna a sfera in qualche misura “standard”, e qualche tempo fa addirittura vendeva, per i più esigenti, la celeberrima fisher space pen, ovvero la penna degli astronauti che consente di scrivere in tutte le posizioni, mi sono anche chiesto quale possa essere “da noi” la penna migliora da abbinare al notes giapponese di cui sopra.

Anche in questo caso sono giunto ad una conclusione, che potete facilmente acquistare su Amazon a un prezzo veramente competitivo:

Tomboy AirPress Pen BC-AP65-B

Ce ne sono di tantissimi colori, tutti molto accattivanti e con un pizzico di estetica “tactical” che risulta perfettamente coerente con la funzione (la mia è trasparente). La penna è anche pressurizzata, esattamente come la sua ben più costosa sorella americana fisher space.

La penna in questione ha un meccanismo “click and go” veramente perfetto e comodo, che vi permette di scrivere al volo in ogni condizione possibile, anche dal basso verso l’alto, per la meccanica di pressurizzazione dell’inchiostro caratteristica del prodotto.

Uno Stile d’Inverno

Solitamente non sono un grande fanatico delle penne stilografiche bianche. Non so, ma in generale il colore bianco mi sembra poco adatto a una penna, tanto meno a una stilografica.

Tuttavia c’è, nella mia collezione di stilografiche quasi tutte nere, o trasparenti, o colorate, una penna totalmente bianca che evidentemente mi piace, e che peraltro mi capita di usare più e più volte. Si tratta di una Lamy Safari, storico modello nato esattamente nel 1980 per la nota casa tedesca, quasi interamente in plastica.

Personalmente, ritengo che questo specifico design “suoni meglio” in configurazioni colorate, pop, in linea cioè con l’atmosfera del tempo nel quale è stato creato. Ecco dunque che le mie preferenze specifiche vanno in questo caso a penne gialle, o arancioni, o più recentemente in colori particolari, con un carattere specifico: tinta petrolio, tinta crema, etc…

Ma ripeto: questa bianca, così neutra, così apparentemente fredda, a me piace, in quanto si adatta perfettamente a molti supporti e a molti colori dei medesimi; basti pensare al nero e all’arancione carico di alcuni quaderni che uso, come i Rhodia, per me un vero e proprio standard. (A proposito. Recentemente è stata introdotta la gamma “ice”, appunto completamente bianca. A maggior ragione…)

La penna ha un design chiaramente industriale. Eppure mi comunica un senso di “estetica invernale” che volevo in qualche modo completare con un inchiostro dedicato, in una di quelle cosiddette combo che piacciono tanto agli statunitensi.

Ebbene, l’inchiostro l’ho individuato si chiama Salix, ed è prodotto dall’altrettanto germanica Rohrer & Klingner. Trovate in questo articolo una recensione.

In generale non sono un amante del blu come colore di scrittura, ma qui siamo di fronte a un blu particolare, strutturato, abbastanza scuro, che una volta secco, grazie alle proprietà ferrogalliche dell’inchiostro, diventa quasi grigio antracite.

Mi piace.

Alcune Ossessioni Fanta-Letterarie

La letteratura, letteralmente, o letterariamente, mi ossessiona ponendomi delle domande specifiche, che suonano circa così:

  • Come può la letteratura veicolare un messaggio utile nella realtà, pur creando un mondo totalmente svincolato da qualsiasi ragionevolezza reale? (Non parlo, attenzione, di mondo “fantastici” o “fantascientifici” che possano essere “plausibili” sulla base di un sistema di regole assolutamente codificate, ma di vere e proprie assurdità che però, attraverso la mediazione, come dire, “poetica”, della letteratura, diventano magicamente ascoltabili e visualizzabili come reali o realistici.)
  • Come può la letteratura veicolare un messaggio utile nella realtà, parlando letterariamente di cose assolutamente reali o realistiche?
  • Come possono i protagonisti delle innumerevoli serie dedicate a (quelli che io chiamo) vampiri metropolitani in salsa di psicodramma famigliare vivere alla grande senza muovere neppure un dito, anche solo per far finta di lavorare?
  • Perché i fantasmi letterari sono assoggettati alla forza gravitazionale? Ha senso? Non dovrebbero invece potersi muovere attraversando la materia anche verticalmente oltre che orizzontalmente?
  • Corollario: Ma poi perché i fantasmi sono raffigurati con un corpo? Ha senso un corpo nella non corporeità?

Riprendo a Scrivere

Ho ripreso a scrivere, cercando di ricordare operativamente i consigli di Natalie Goldberg che mi hanno sempre ispirato, ma che appunto per un bel po’ avevo abbandonato.

Non ho molto tempo per la scrittura, purtroppo. Vorrei averne di più, ma cerco di farmelo bastare. Utilizzo un metodo molto schematico: singoli quaderni Rhodia o Clairfontaine (i migliori, straordinariamente economici nonostante l’eccelsa qualità), numerati cronologicamente tramite data di apertura e chiusura, e una penna stilografica Lamy Safari a punta fine (anche se posso tranquillamente usare una banale penna a sfera, o un pennarello, a seconda della comodità del momento).

La sequenza di quaderni numerati restituisce l’idea di un diario unico, impilabile come raccolta lineare di singoli componenti comodi da portare con sé anche in viaggio. Nel diario non inserisco solo la pura scrittura, ma anche informazioni laterali che intendo ricordare: nomi, indirizzi web, ma anche cose da fare, idee forti, e via discorrendo. In questo modo ho tutto sotto mano, sempre.

Nasce il Non Fungible Post

L’idea di una prassi targata NFP (Non Fungible Posting), annotata stamane nel mio Mastodon. Interessante. Si parla della scrittura nel web (ossia, nel Web3) come di una potenziale modalità aumentata, che consenta non solo di leggere, ma anche di collezionare in uno spazio privato. (Come ovvio, o come spero ovvio, c’è di mezzo la blockchain.)

Un calligramma digitale. Omaggio indiretto a Brion Gysin.

Tutto questo ha a che fare con l’idea determinante di composizione. Laddove l’intelligenza artificiale svolge ormai tutto al tuo posto, c’è poco da fare: l’arte vera più che mai sorge dalla capacità di comporre in sequenze spaziotemporali sensate.

Lungo una serie abbastanza corposa e apprezzata di NFT collezionabili snocciolati nella mia pagina Cent ho cercato di fare esattamente questo, anche se la dotazione fattuale di ispirazioni non mi ha permesso di sfruttare la tecnica fino in fondo, o almeno come vorrei. Ma sono comunque soddisfatto. Ho una marea di collezionisti che possiedono volontariamente quello che scrivo e associo “compositivamente” a immagini, video e altre espressioni multimediali.

Su questi concetti dovrò necessariamente tornare…

Sul Creare Contenuti

A vario titolo e per varie ragioni, in questo periodo mi sto interessando di creazione di contenuti; ovvero, della (fantomatica) figura del content creator.

Il contenuto e la tecnologia

Per quanto la perifrasi sia effettivamente l’ennesima — diciamocelo chiaramente — mistificazione che usa l’inglese come lasciapassare di un’originalità del tutto presunta, che nasconde certamente cose antiche e banali (dal coworking che è e rimane un banale “affitto di scrivanie” ai vari talk che altro non denotano se non “discorsi in pubblico” che si tengono dall’epoca di Cicerone esattamente nello stesso modo), il mondo attorno alla creazione di contenuti è certamente interessante.

La ragione di questo interesse è sicuramente il rapporto tra mondo fisico e mondo digitale, con uno sguardo molto attento alle tecnologie che oggi permettono di liberarsi più o meno totalmente di ogni figura intermedia tra creatore e fruitore. Parlo essenzialmente della blockchain, ossia di quel costrutto informatico che ha permesso la nascita e l’ascesa delle cryptovalute, e oggi sta alla base della rivoluzione degli NFT, token non fungibili che mimano alla perfezione il comportamento di un’opera d’arte unica e irripetibile che passa di mano in mano — di wallet in wallet — attraverso procedimenti crittografici automatizzati.

Senza tanto perdere tempo nel parlare degli altri creatori di contenuti, parlerò di me. Perché sì, io mi ritengo un creatore di contenuti, nonché un docente — versato in tecniche creative e di visual thinking (ok, questa volta ho usato io un termine inglese, ma solo per necessità di sintesi) — che ha spesso insegnato ad altri ad esserlo. Quindi, vorrei fare il punto su me stesso.

Una sorta di manifesto (valido forse solo per me)

A me capita di fare tante cose. Sono un crypto entusiasta che lavora come consulente freelance Bitcoin e Altcoin, ma adoro i film degli anni Trenta. Disegno in bianco e nero su carta, eppure adoro l’arte digitale e i suoi luminosi cromatismi a schermo. Colleziono e uso penne stilografiche di ogni tipo, ma quasi sempre scrivo a schermo. Amo il synthpop anni Ottanta che veniva veicolato da musicassette fisiche (peraltro tornate di moda), però non potrei fare a meno degli mp3. E via discorrendo.

Non ho mai amato le accozzaglie, né mai le amerò; ma di certo il rapporto tra digitale e analogico mi ha insegnato un dettaglio illuminante. Il vero e grande punto di forza del “mezzo” informatico e telematico è la capacità di veicolare con assoluta efficacia ed efficienza un mix di elementi multimediali eterogenei in una forma univoca e coerente.

L’idea deriva dalla mia lettura di Steal Like ad Artist, di Austin Kleon. Il creativo colleziona cose diverse, apparentemente conflittuali e non miscibili. La sommatoria di tutte queste, però, restituisce l’identità del creativo stesso. Quindi non bisogna tanto preoccuparsi di come verranno assemblati certi materiali. L’importante è collezionare tutto ciò che sembra significativo, scartando il resto.

Quando osservo qualcosa che mi piace, subito dopo averla collezionata (leggi, rubata) inizio subito a chiedermi con quale altra poterla remixare al fine di comunicare quel qualcosa che non posso fare a meno di comunicare.

L’arte, per me, è un remix. Non necessariamente un remix di oggetti posti sullo stesso livello. Può essere anche un remix inedito di stili applicati a un determinato soggetto, o di posizioni filosofiche, o di colori, forme, approcci, cornici, schemi.

Ma attenzione. Il mio metodo — o manifesto — non indica nel remix una sorta di “a prescindere” estetico. Al contrario, io mescolo solo se posso in qualche modo intuire un senso, una particolare efficacia.

Ultimamente, per esempio, sono affascinato da come un normalissimo post di blog — cioè un articolo — possa diventare vera e propria opera d’arte collezionabile attraverso la tecnologia dei non fungible token. Se ci pensiamo, un articolo è esattamente un remix: di immagini, testo, video, musica… Quale forma migliore per veicolare l’idea di arte che ho appena descritto?

Nella mia pagina Cent, propongo spesso opere collezionabili (quasi sempre gratis, a volte a pagamento) in forma, appunto, di articoletti con un titolo, alcune frasi e una o più immagini.

A volte remixo immagini puramente digitali. Altre volte riciclo miei disegni attraverso tecniche di rielaborazione cromatica, riproducendo effetti che altrove mi sono piaciuti.

Dal punto di vista strettamente estetico, direi che il risultato finale, nella sua varietà “riconducibile a me”, mi soddisfa. Nonostante questa soddisfazione, però, io ritengo che il ruolo di un content creator oggi come oggi non possa prescindere da qualcosa di più. Questo qualcosa in più a mio avviso somiglia molto — mi si passi la perifrasi piuttosto pindarica — all’idea di smart contract che sta alla base del funzionamento di determinate transazioni in blockchain. Ossia: ciò che noi oggi possiamo chiamare arte, o più in generale design, sia esso fatto con carta e penna, sia esso elaborato con le più articolate tecniche elettroniche di rendering tridimensionale, non può viaggiare senza un contenuto ulteriore. Questo contenuto secondo me è l’appartenenza a una community, a un pensiero comune, a una condivisione di strumenti e filosofie… Tutte cose che un NFT può veicolare in modo automatico tramite il suo meccanismo di funzionamento.

Un NFT collezionato è frutto di una transazione. Può essere una transazione in denaro (digitale), oppure un regalo fatto a fronte di un’azione. In ogni caso, lo specifico NFT posseduto dal singolo è di volta in volta biglietto, tessera annuale, amuleto, lasciapassare, chiave di sblocco funzioni all’interno di un sito, prova di fedeltà, status symbol, oggetto da apporre come avatar, e mille altre cose.

Conclusioni

L’arte digitale deve diventare strumento di comunicazione operativa, spicciola, terra terra. Abbiamo bisogno di comunità dove l’estetica possa sfumare nella tokenizzazione del tutto.

Abbiamo bisogno di diffondere una cultura di creatività capillare, a disposizione di chiunque.

Il content creator, dunque, deve diventare protagonista in un contesto completamente opposto a quello, presunto e presuntuoso, del mero testimonial, che al contrario non produce nulla di originale, ma si adegua alla dittatura dello sponsor di turno, o dell’agente, o di qualsiasi altro elemento di mediazione non alla pari.

Un vero e proprio manifesto, dunque, il mio. Che propongo a voi esattamente così, senza alcun filtro o mistificazione.